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Come leggere i mille giorni ormai trascorsi dall’inizio del conflitto russo-ucraino, quali considerazioni è possibile trarre dalla sua evoluzione recente e imprevista? Cosa pensare quando la forza politica e militare, per imporsi, veste i panni dell’apparente ragionevolezza? Ci sono al riguardo sostanzialmente due posizioni antitetiche: von Clausewitz non aveva tutti i torti nel mostrare il disordine reale che è possibile leggere dietro l’ordine apparente, e le poste in gioco dichiarate di ogni guerra e di ogni pace, in aperto contrasto con Hegel, che invece intravedeva una “astuzia della storia” dietro i conflitti, che avrebbero la funzione di produrre un nuovo ordine superiore al precedente. Certo, individui “cosmico-storici” – come Napoleone, personaggi chiave che con la loro azione introducono un’epoca nuova – si producono solo raramente sulla scena del mondo, ed è difficile (se non risibile) pensare a Trump e a Putin in queste vesti. Eppure, è sempre più evidente che il pasticciaccio della guerra ai confini dell’Europa, se non addirittura per molti versi interna all’Europa stessa, è giunto a uno spartiacque storico.
L’Ucraina, il secondo Paese più grande d’Europa, dopo tre anni di durissimo scontro, è quasi a rischio scomparsa. Distruzione di infrastrutture e di interi abitati, perdite umane che nessuno è ancora in grado di stimare con certezza, emigrazione di massa e spopolamento di intere regioni, dipendenza da ingentissime sovvenzioni estere per potere proseguire la resistenza o, almeno, mantenere alcune posizioni importanti. La guerra ha innescato la peggiore crisi dei rifugiati dalla Seconda guerra mondiale: si parla di oltre sette milioni di espatriati, solo in Germania sono un milione e mezzo gli ucraini fuggiti. La Russia, sulla cui sconfitta aveva scommesso la Nato, non solo è ormai militarmente prevalente, ma, nonostante le sanzioni senza precedenti impostele, sembra prosperare economicamente e crescere, anche in virtù dell’impulso proprio dell’industria bellica. Al contrario, per difendersi, l’Ucraina ha dovuto fare ricorso a ingenti aiuti esteri, di cui ora il nuovo presidente americano chiede il ritorno, o quantomeno un equivalente materiale con le terre rare. Trump ha chiarito che l’Ucraina non potrà più contare sugli aiuti economici e militari da parte degli Stati Uniti, e vuole invece costringere l’Ucraina e la Russia a negoziare per porre fine alla guerra.
Nel frattempo, le forze armate russe stanno continuando ad avanzare, e nelle ultime settimane hanno conquistato numerose città. Quasi un quinto del territorio ucraino, compresa la penisola di Crimea, è ormai occupato dalla Russia. Gli ucraini devono fare i conti con la superiorità del nemico in termini di soldati e tecnologia. Diserzioni di massa e lentezza della mobilitazione assottigliano le file dei combattenti. Le truppe ucraine sono presenti nella regione russa di Kursk, dall’agosto 2024, dopo avere tentato un disperato contrattacco a sorpresa, ma anche questa testa di ponte si sta restringendo.
Non ci si può però limitare a considerare la situazione seguendo l’ottica delle cartine e delle bandierine segnaposto; bisogna guardare anche alla tenuta sociale delle forze in campo: secondo “Der Spiegel” i sondaggi (quanto attendibili?) parrebbero mostrare che più della metà degli ucraini sostiene ancora il presidente Zelensky, nonostante Trump ne abbia fortemente dubitato e ne abbia messo in discussione la legittimità. Esisterebbe, nel Paese, ancora una maggioranza contraria alle cessioni territoriali e ad altre concessioni alla Russia. Ma la percentuale di coloro che vorrebbero porre fine alla guerra attraverso negoziati e compromessi è in continuo aumento.
Quel che dice il campo di battaglia è qualcosa di più del dispiegamento sul terreno di una strategia: è il luogo in cui la guerra viene concettualizzata e tradotta in politica. Le diverse strategie dei contendenti trovano qui il loro momento di confronto e di affermazione. Non è sempre detto che prevalga chi vince le battaglie, chi ha un carro armato o un missile in più da mettere in gioco, o chi ha guadagnato un chilometro di terreno. La partita si gioca secondo una grammatica che è certo specifica della guerra, ma la cui logica è identica a quella politica; e la politica si intreccia strettamente con la componente militare, soprattutto quando arriva il momento delle trattative. Si può sempre vincere la guerra e perdere la pace.
Se si sta ai comunicati ufficiali, pare improbabile che l’Ucraina rinunci del tutto ai territori occupati dalla Russia. Tuttavia, da tempo, non si sente più ripetere la richiesta che i russi si ritirino dietro i loro confini, e solo pochi militari ucraini inneggiano a oltranza a un possibile successo. Zelensky ha poche carte in mano al tavolo da poker a cui dovrà sedersi, e parla ormai di una pace giusta piuttosto che di vittoria. La questione cruciale è però: che ne sarà dell’Ucraina una volta terminati i combattimenti?
Putin, dal canto suo, è ben contento che Trump voglia parlare esclusivamente con lui. Ha più volte sottolineato la sua disponibilità a negoziare, in linea di principio. Ma, poiché si considera prossimo alla vittoria militare, chiede il massimo possibile: una sottomissione politica del Paese limitrofo, e dà come acquisiti i territori della penisola di Crimea e le regioni ucraine di Luhansk, Donetsk, Zaporizhia e Kherson. Se così fosse, questo vorrebbe dire che l’Ucraina dovrebbe abbandonare anche le città di Zaporizhia e Kherson, che finora ha accanitamente difeso. La Russia vuole inoltre la garanzia che l’Ucraina rimarrà fuori dalla Nato, esige un ampio disarmo del vicino, e la possibilità di dire la propria sulla politica linguistica della minoranza russa nel Paese. Spalleggiata in molte richieste proprio dagli Stati Uniti, che hanno sostenuto come l’adesione di Kiev alla Nato e la riconquista dei territori perduti siano obiettivi irrealistici.
Gli Stati europei sono fuori gioco, condizionati dall’annuncio americano secondo cui non sarà loro consentito avere voce in capitolo nelle trattative; ma ci si aspetta che si assumano quantomeno l’onere di mantenere la pace in Ucraina, possibilmente con i propri soldati. Hanno ben chiaro, però, che una pace forzata, con un’Ucraina in difficoltà estrema, e pressata dalla invasiva presenza russa, potrebbe costringere nuovamente milioni di persone a fuggire. Per il momento, hanno rifinanziato Zelensky, cercando nervosamente di concordare la posizione da tenere in uno scenario rapidamente mutato, dopo essersi resi conto, tardivamente, che è stato un errore non cercare una via diplomatica alla soluzione del conflitto e scommettere sulla sconfitta della Russia.
In un simile contesto, il “nuovo ordine mondiale” vive solo nello sciocchezzaio giornalistico, nemmeno lontanamente lo si intravede, e anzi la conclusione della guerra, se dovesse avvenire nei termini proposti dalla nuova amministrazione americana, non farebbe presagire nulla di buono sullo scacchiere mondiale, dato che prospetta un accrescimento del disordine sistemico e il via libera alle superpotenze per far ricorso alla forza nelle questioni di loro interesse. Una violenza che rischia, così, di diventare generalizzata, alla portata di chiunque abbia la capacità tecnica e militare di farne uso. In quale modo decifrare allora la situazione attuale? La strategia statunitense sembra dare ragione a von Clausewitz contro Hegel: razionalità apparente, disordine reale, nessun universale che emerge dal particolare, dalla guerra non nasce un nuovo equilibrio delle forze, ma una pace fragile foriera di nuove inquietudini.
L’architettura della sicurezza del continente ha cominciato a cedere, ma il volere prolungare la guerra, da parte della dirigenza dell’Unione europea, non pare avere il senso di una decisione dovuta a una precisa strategia, anche se mai si potesse concretizzare l’improbabile riscossa ucraina; sembra piuttosto il frutto di quel continuo procrastinare, del non voler operare delle scelte, della colpevole inerzia che l’hanno finora caratterizzata. Scriveva Bertolt Brecht in Madre Coraggio e i suoi figli: “Come tutte le cose buone, anche la guerra, da principio è difficile. Ma poi, quando ha attaccato, tiene duro. Allora la gente ha paura della pace, come chi gioca a dadi ha paura di smettere perché viene il momento di fare i conti, di vedere quanto s’è perduto”. Correva l’anno 1939.