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La posizione assunta da Trump a proposito del conflitto russo-ucraino, con l’ostentato riavvicinamento alla Russia di Putin e la contemporanea “liquidazione” di Zelensky, ha avuto, per usare un’espressione abusatissima, l’effetto di uno tsunami sulla maggior parte dei governi europei, finora avvinghiati allo slogan “europeisti e atlantisti”, come se le due posizioni costituissero un binomio inscindibile. Ora, invece, l’atlantismo divorzia dall’europeismo, e non per colpa di qualche governo europeo sovranista o isolazionista, ma del nostro storico alleato nordamericano.
All’intervento a gamba tesa di Trump i vari governanti europei hanno reagito in ordine sparso. Appaiono particolarmente patetici gli atteggiamenti di Emmanuel Macron, su un versante, e quelli di Giorgia Meloni, dall’altro: il primo convoca un vertice dopo l’altro (con la partecipazione di un Paese extra-Unione, come la Gran Bretagna, e l’esclusione di molti altri che ne sono invece membri), nessuno dei quali ha finora avuto qualche risultato; la seconda resta per il momento muta, data la sua evidente difficoltà di conciliare le dichiarate simpatie per Trump con l’“euro-atlantismo” ripreso tal quale dal governo Draghi, atteggiamento che le ha assicurato, se non l’appoggio, almeno una certa benevolenza da parte dei nostri principali media.
Prima di proseguire nella nostra analisi, è opportuno sottolineare che anche chi, come il sottoscritto, ha sempre auspicato l’avvio di negoziati per la soluzione del conflitto tra la Russia e l’Ucraina non può abbandonarsi a facili ottimismi. Tutti conosciamo (o almeno, dovremmo conoscere) il cinismo di Trump e il suo disprezzo per gli autentici valori di pace, democrazia e libertà, come dimostrano, tra l’altro, le sue recenti proposte di deportare i palestinesi di Gaza (perché questa è la sua intenzione, indipendentemente dalle parole usate). Dunque, se Trump cerca di arrivare a un accordo con Putin (che non è un angioletto nemmeno lui), è certamente per trarne qualche vantaggio. Quale è difficile dirlo, almeno per ora: forse, le terre rare, che si trovano soprattutto nel Donbass, cioè nella parte dell’Ucraina oggi quasi interamente in mano russa, e che quindi non sarebbe tanto Zelensky a poter concedere, quanto l’autocrate del Cremlino.
C’è poi un altro problema non trascurabile, cioè il destino dell’Ucraina. Sotto questo aspetto, non si può dare certamente torto a Zelensky, quando dice che non si può pensare a un accordo senza la partecipazione di una delle parti coinvolte nella guerra, cioè il suo Paese. Naturalmente, un accordo di questo genere è tutt’altro che facile da concludere e, soprattutto, da rispettare, come dimostra il fallimento dei precedenti accordi di Minsk. Diversamente, tuttavia, la prospettiva non può essere che una tregua fragilissima destinata a rompersi in breve tempo, come ha osservato Rino Genovese su “terzogiornale” (vedi qui). In sintesi, dunque, c’è qualche speranza che il conflitto in corso possa in tempi brevi giungere almeno a un cessate il fuoco, ma non vi è alcuna certezza in proposito e, ancor più, sugli sviluppi futuri della situazione.
Ora torniamo sull’argomento accennato all’inizio, cioè sull’atteggiamento dell’Europa nei confronti della politica di Trump. Si è parlato, a questo proposito, della creazione di un “esercito europeo”, capace di difenderci autonomamente (cioè anche senza gli Stati Uniti) dalle pretese mire espansionistiche della Russia. Un’idea del genere sembra essere caldeggiata da Macron e, qui in Italia, è apertamente sostenuta da alcune forze politiche (in primo luogo, dai centristi di Azione, Italia viva e +Europa, ma anche da una parte consistente del Pd) e da vari autorevoli opinionisti e analisti di politica internazionale. La domanda che ci dovremmo porre è questa: cosa dovrebbe (o potrebbe) fare un tale esercito, riguardo al conflitto in Ucraina?
In questi giorni, i politici, gli opinionisti e gli analisti di cui sopra ripetono come un mantra il paragone con l’accordo di Monaco del 1938, che, consegnando a Hitler i Sudeti, parte dell’allora Repubblica cecoslovacca, aprì la strada al tentativo del Führer di impadronirsi dell’intera Europa, e dunque alla seconda guerra mondiale. Quindi – proseguono detti politici e opinionisti – se lasciamo a Putin l’Ucraina, poco dopo invaderà la Polonia o i Paesi baltici, e poi tutti gli altri Paesi europei, fino a Lisbona, assoggettandoci alla sua dittatura, con la conseguente perdita della libertà e del benessere di cui godiamo dal 1945 in poi. Su questa possibile perdita del nostro benessere si insiste molto, in questi ultimi tempi, con lo scopo evidente di spaventare un’opinione pubblica, come quella italiana, in maggioranza contraria alla prosecuzione della guerra. Sulla legittimità di questo paragone storico (si badi bene, non sulla legittimità dell’occupazione dei Sudeti da parte di Hitler, che fu una violazione del diritto internazionale tanto quanto lo è l’attacco russo all’Ucraina), ha espresso molte e documentate obiezioni Luciano Canfora, in un’intervista pubblicata sul “Fatto quotidiano” del 16 febbraio scorso. Ci limitiamo a riprendere una sola delle tante osservazioni di Canfora: l’art. 5 del Patto atlantico “prevede che un attacco a un singolo Stato appartenente alla Nato comporta una reazione militare dell’intera Alleanza”. La Nato, nel 1938, non esisteva: questa differenza con la situazione odierna non è di poco conto.
Stando così le cose, non si vede come Putin potrebbe arrivare a Lisbona, ma anche solo a Varsavia o a Vilnius, con la facilità paventata dai nostri autorevoli opinionisti: se in tre anni ha conquistato poche centinaia di chilometri quadrati dell’Ucraina, difesa dal suo solo esercito nazionale, come potrebbe conquistare in un amen tutto il resto dell’Europa orientale e l’intera parte occidentale del continente? La cosa divertente è che uno dei più accesi opinionisti di cui sopra, Vittorio Emanuele Parsi, sostiene entrambe le tesi: cioè quella della minaccia e contemporaneamente della debolezza russa (trasmissione “Radio anch’io” di qualche giorno fa). Forse, Parsi e gli altri che sostengono posizioni simili alle sue partono da una premessa tacita (ma imprescindibile): cioè che Trump possa fare carta straccia dell’art. 5 della Nato, se quest’ultimo si rivelasse un ostacolo per la sua politica. Un’ipotesi del genere non sembra del tutto irrealistica; e quindi potrebbe portare acqua al mulino di chi auspica una prosecuzione del conflitto, oppure “una pace sì, ma solo alle condizioni dell’Ucraina” (che è la stessa cosa). Ma a questo punto la domanda diventa: può un fantomatico esercito europeo sconfiggere la Russia senza che intervengano anche gli Stati Uniti? Sembra piuttosto difficile.
Anzitutto, costituire un esercito non è impresa da poco, e soprattutto non breve: si tratta di coordinare sistemi di armamento e logistici diversi, creare un comando unificato, ecc.; inoltre (difficoltà non piccola) il fatto che in Europa si parlino molte lingue diverse può ostacolare, in certi casi, l’esecuzione di ordini e di piani di intervento rapido, con conseguenze che possono essere deleterie. Per esempio, cosa potrebbe accadere se un reparto di soldati italiani ne incontrasse casualmente uno di soldati polacchi? È vero che oggi la conoscenza dell’inglese è abbastanza diffusa, ma non è detto che l’inglese parlato da un polacco non potrebbe essere scambiato da un italiano per quello di un russo mascherato, e così via, con la conseguenza che i due reparti alleati finirebbero con lo spararsi gli uni con gli altri (come pare accadde alla battaglia di Custoza, nel 1866, quando un reparto di soldati piemontesi e uno di soldati meridionali si sarebbero reciprocamente scambiati per austriaci travestiti).
C’è poi un problema più grosso, che dimostra l’insuperabile debolezza di qualunque sistema di difesa europea: lo squilibrio degli arsenali nucleari. Come si sa, la Russia possiede oltre seimila testate, mentre quelle possedute dai Paesi dell’Europa occidentale (cioè, da Francia e Gran Bretagna insieme) assommano a poco più di cinquecento. Il problema dell’uso delle armi nucleari è stato finora sempre taciuto dai sostenitori della prosecuzione del conflitto “fino alla pace alle condizioni dell’Ucraina”, ma non per questo è meno pressante. Finora, è stato fatto passare, più o meno sotterraneamente, il messaggio che Putin non userà mai l’arma nucleare, perché questo causerebbe l’immediata reazione degli Stati Uniti. Che questo messaggio rassicurante non sia molto credibile è già stato mostrato dalle rivelazioni di Bob Woodward (il famoso giornalista del “Washington Post”), in base alle quali Putin era pronto a ricorrere alle armi nucleari tattiche, nell’autunno 2022, quando le cose sembravano mettersi particolarmente male per la Russia. Ma il problema fondamentale è un altro: se l’Europa decidesse di continuare a combattere senza gli Stati Uniti, l’ombrello protettivo offerto da questi ultimi verrebbe inesorabilmente meno. Quindi, una prosecuzione del conflitto, auspicata dai tanti nostri politici, opinionisti e analisti che si battono, a parole, per la libertà e l’indipendenza dell’Ucraina e dell’Europa intera, condurrebbe non solo a un assoggettamento di questi Paesi alla Russia, ma anche alla loro distruzione.
Che cosa può fare allora l’Europa (posto che un’entità politica così denominata esista realmente)? Cedere in tutto e per tutto agli interessi congiunti di Trump e di Putin (posto che tale convergenza effettivamente si realizzi)? Certamente no. Però potrebbe imboccare la strada diametralmente opposta a quella seguita finora: diventare mediatrice in un negoziato tra Russia e Ucraina, cercando di farsi riconoscere questo ruolo anche da Trump. Certamente, allo stato attuale una prospettiva del genere sembra lontana dal concretizzarsi: ma se l’Europa occidentale, e in particolare l’Unione europea, avessero scelto questa strada fin dall’inizio, sarebbe probabilmente di più facile attuazione. Invece l’Unione si è inchinata alla volontà e ai programmi dei governanti statunitensi allora al potere: adesso che sono cambiati, la sua posizione è molto più debole rispetto a quella di tre anni fa.