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Si può lamentare finché si vuole la circostanza che, in anni ormai lontani, l’Unione europea sia stata guidata dalla Germania (in un partenariato privilegiato con la Francia); tutti ricordiamo ciò che l’intransigenza budgetaria di Berlino significò in termini di sofferenze per i cittadini greci, puniti perché i loro governi avevano imbrogliato sui conti. E tuttavia, se non altro per ragioni di realismo politico, non si può non ammettere che il nocciolo di molto di quello che ci preme salvare del progetto europeo stia nella Bundesrepublik. Non va dimenticato, per esempio, che la Germania aveva completamente trascurato di avere delle forze armate degne del nome dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, concentrando opportunamente i propri sforzi su un welfare basato, in larga parte, su una cogestione tra lavoratori e imprese, su una politica di alti salari e piena occupazione, che era (pur senza volerne fare un’apologia acritica) quanto di meglio il compromesso socialdemocratico postbellico avesse prodotto. Non dimentichiamo neppure che – ancora con la cancelliera Merkel – la Germania ha seguito una linea di distensione internazionale, in primis con la Russia, e che, con grande apertura, aveva accolto numerosi profughi, in particolare provenienti dalla Siria.
Il 23 febbraio, domenica prossima, si gioca quindi una partita decisiva per la Germania e per l’intera Unione europea. Come si sa, i sondaggi dicono ancora, nonostante le interferenze trumpiane, che l’Unione cristiano-democratica di Merz è in testa con circa il 30%, che l’estrema destra è al 20%, che i socialdemocratici e i verdi sono ambedue intorno al 15%. Ci sono i numeri per quella “grande coalizione” che è un po’ il Leitmotiv della politica tedesca. Il senso stesso della politique politicienne europea attuale è dato dalla necessità di una unità tra i partiti democratici dinanzi al pericolo costituito dalla “internazionale nazionalista” (vedi qui), che, in questo frangente complicato, si presenta come pacifista (per tacere di quelle frange della sinistra radicale che, anch’esse pacifiste, hanno finito però con l’abbracciare un sovranismo consono alla destra).
Non ci lasciamo ingannare, sappiamo perfettamente che nel Dna dell’estrema destra non c’è affatto la pace, quanto piuttosto la creazione di nuove tensioni a sfondo nazionalistico e protezionistico. Non ignoriamo, al contempo, che la guerra in Ucraina andava fermata già sotto la presidenza Biden, perché è finita in un insensato batti e ribatti, con una Russia che ha raggiunto l’obiettivo di conquista di territori, e una Ucraina che tuttavia è riuscita a difendere la propria indipendenza: va dunque chiusa al più presto. Abbiamo piena consapevolezza di come l’Unione europea non sia stata all’altezza della situazione, in quanto, in mancanza di un’iniziativa statunitense, già nei mesi scorsi avrebbe dovuto iniziare a sondare le vie almeno di un cessate il fuoco, se non quelle di una pace duratura difficile da realizzare. E tuttavia, superando le nostre perplessità, sappiamo anche che l’Unione europea è un bene irrinunciabile, l’unica prospettiva che possa garantirci dal precipitare un po’ più nel caos.
Purtroppo non si intravede ancora un’idea chiara – a parte un impegno al riarmo, che riguarda anzitutto la Germania, ma dovrebbe essere interesse comune per la costituzione di un esercito europeo – su come procedere sulla via che dovrebbe portarci fuori dalla guerra guerreggiata. È evidente che gli interessi degli Stati Uniti di Trump e quelli della Russia di Putin non coincidono con quelli dell’Europa. Ma quali sono quelli di quest’ultima? Non avere un conflitto aperto alle sue frontiere, certo – e poi? Entrare come forza di pace con propri soldati nello scenario ucraino-russo? Non sembra un’opzione convincente, perché, per quanto si possa sperare il contrario, è altamente probabile che quella tra i due Paesi belligeranti sia una pace fragile. Dunque l’Unione, al tavolo delle trattative, dovrebbe prudentemente tenersi fuori da qualsiasi eventuale missione di peacekeeping – ammesso e non ancora concesso che si arrivi a questo punto nel negoziato –, mentre dovrebbe insistere affinché questo ruolo sia svolto dall’Onu. Rientra del resto tra le priorità di una politica democratica che le Nazioni Unite siano ricondotte a quella funzione centrale che, disgraziatamente, hanno avuto sempre meno; inoltre non è in alcun modo consigliabile che, in una ipotetica forza di interposizione, ci siano Paesi che siano stati coinvolti nella guerra, sia pure soltanto nella forma del supporto fornito a uno dei belligeranti. Una forza internazionale di pace, sotto l’egida dell’Onu, dovrebbe essere formata da Paesi che hanno avuto una posizione più defilata nel contenzioso bellico, anche più lontani geograficamente.
Sono comunque tutte questioni che andranno chiarendosi strada facendo. Intanto, però, guardiamo con attenzione, e con qualche ansia, a quanto accadrà domenica prossima a Berlino. Un passaggio decisivo, infatti, è dato dal ritorno della Germania, in virtù di una maggioranza di governo democratica, al suo ruolo centrale sulla scena europea.