
“Tossico”. “Un sindacato superato dalla storia perché legato a un’idea novecentesca di conflitto tra capitale e lavoro”. “Un sindacato che si appiattisce sul governo e propone una legge sulla partecipazione agli utili che ucciderà la contrattazione”. Gli scambi di accuse tra Cisl e Cgil, con il carico da undici della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha scelto nettamente da quale parte stare, sono la rappresentazione plastica dello stato attuale delle relazioni sindacali italiane. Tutti gli osservatori concordano: l’unità sindacale – antico vessillo e cultura profonda delle confederazioni – non ha mai toccato un punto più basso.
Qualcuno si spinge ancora in là nel giudizio: siamo in una situazione peggiore di quella vissuta durante il ventennio berlusconiano. Allora lo schema vedeva la Cgil, da una parte, e la Cisl e la Uil, dall’altra, nel dialogo con i ministri di Berlusconi. Ora Meloni è riuscita in una divisione che appare sempre più come una frattura politica e sociale, con una Cisl governativa e una Uil che si è alleata con la Cgil, sulla scia della dottrina della coalizione sociale, vecchia idea coltivata dal segretario generale Cgil, Maurizio Landini, dai tempi in cui guidava i metalmeccanici. Tra corso d’Italia, sede della Cgil e via Po, sede della Cisl, la distanza fisica è di poco più di due chilometri; la distanza politica è ora difficilmente calcolabile. E gli sviluppi sono incerti per tutti.
Era prevedibile questo epilogo? Torniamo un po’ indietro. Marzo 2023. Congresso nazionale della Cgil, Rimini. Parla Meloni, invitata da Landini tra i mal di pancia dell’organizzazione rossa. “Questa mia presenza ha fatto discutere. Signori, vengo fischiata da quando avevo 16 anni. Potrei essere ‘cavaliere al merito’ di questa materia. Le proteste non mi spaventano. Il confronto è necessario, utile”. Sotto il palco, appena presa la parola, era partito il coro “Bella ciao” da parte di una trentina di partecipanti che poi hanno abbandonato la sala. Alla fine dell’intervento – raccontano le cronache di quel giorno – c’è stato solo un timido applauso dalla platea, composta da un migliaio di delegati, e la dichiarazione finale della premier: “Sono soddisfatta, non ho mai paura di confrontarmi, come si sa. Penso fosse una cosa giusta, era doveroso esserci”, disse Meloni con un mazzo di fiori in mano.
Seconda scena. Febbraio 2025, due anni dopo. Assemblea nazionale della Cisl, quella che ha sancito il passaggio di testimone dal segretario Luigi Sbarra, che ha raggiunto i limiti d’età fissati dallo statuto (65 anni), a Daniela Fumarola, che già ricopriva in segreteria confederale la carica di segretaria generale aggiunta. Meloni ha un mazzo di fiori in mano, gentile omaggio floreale del segretario generale uscente. Un omaggio dovuto alla presidente del Consiglio, ma anche sicuramente molto sentito da parte di Sbarra, che ora andrà a dirigere la Fondazione Marini, in attesa di una qualche collocazione politica. Chi lo conosce dice che, in privato, non ha mai negato le sue simpatie non solo per il governo di centrodestra, ma in particolare per Fratelli d’Italia. A differenza di quello che era successo due anni fa a Rimini, con i delegati rimasti freddi nell’accoglienza alla premier, all’Auditorium della Conciliazione di Roma, Meloni ha raccolto non solo un bel mazzo di fiori, ma anche una standing ovation finale. Gli applausi della platea cislina non erano diretti solo alla Meloni premier, ma soprattutto al Meloni pensiero. Bisogna lasciarsi alle spalle il Novecento, il secolo dei pregiudizi ideologici e dell’antagonismo fine a se stesso. Ora è il tempo della partecipazione, e per questo la legge proposta dalla Cisl è una vera manna piovuta dal cielo (tra parentesi, gli esperti dicono che la bozza in discussione è stata completamente svuotata degli aspetti più favorevoli ai dipendenti delle aziende). I lavoratori non dovranno più combattere per i propri diritti. Devono collaborare con le loro imprese. E anche il modello di contrattazione va rivisto completamente. Basta con lo schema tutto italiano, del doppio livello, quello della contrattazione nazionale e quello della contrattazione territoriale. D’ora in poi si dovrà sviluppare solo la contrattazione nei “territori e nella dimensione aziendale”. Il tutto legato solo a un parametro: la produttività. Fine dei contratti nazionali.
I rischi, a questo punto, sono da entrambe le parti. La Cgil rischia l’isolamento nella contrattazione, e rischia ripercussioni pesanti nelle vertenze, come si è visto per le vicende della spaccatura per gli enti centrali dello Stato. Ma anche la Cisl, che ha sposato senza remore la formula del “governo amico”, non è esente da ripercussioni negative. La nuova segretaria generale non potrà stare troppo serena, nonostante i successi di via Po. Ma sono poi successi? Un esperto di relazioni sindacali e di sindacato, come Dario Di Vico, ha scritto che la scelta della Cisl di imbarcarsi sul carro del vincitore potrà essere un vantaggio solo se porterà dei benefici ai lavoratori. Se il nuovo asse visto dalla parte della premier ha grandi vantaggi – scrive Di Vico –, “analizzato dal versante Cisl, oltre ai vantaggi, presenta però più di qualche rischio. Scegliere un governo come amico non ha portato sempre bene al sindacalismo italiano e, anche in questa occasione, la svolta dovrà sostanziarsi e non restare pura esercitazione politico-diplomatica. Ma con la penuria di risorse a disposizione che cosa il governo potrà scambiare con il nuovo sindacato amico? Per ora è difficile rispondere, ma un’organizzazione sindacale non può accontentarsi di giocare un ruolo nell’agone politico, ha bisogno di portare a casa miglioramenti per i lavoratori. Pena una politicizzazione delle relazioni industriali che non farebbe del bene a nessuno”.
Il bottino che la Cisl porta a casa è relativo, per ora, solo alla legge sulla partecipazione agli utili d’impresa e alla modificazione sostanziale delle relazioni industriali, sulla base dell’articolo 46 della Costituzione. Si dovranno studiare i dettagli, ma sembra già chiaro il fatto che il testo definitivo, che sarà approvato, ha già recepito le riserve avanzate dalla Confindustria: esperienze di tipo cogestivo si potranno implementare solo a partire dalla volontà dell’impresa. Non si guarderebbe quindi al modello tedesco, quanto alle esperienze nel mondo anglosassone. Il baricentro non viene visto nella codeterminazione delle scelte aziendali, nella programmazione del che cosa produrre e come produrlo. Centrale, invece, è la partecipazione alle azioni, nella scia pura di un capitalismo che diventa sempre più finanziario, meno legato a quella che una volta veniva definita l’economia reale. Una formula che non sarebbe piaciuta affatto a Pierre Carniti.
E la Cgil? Il sindacato guidato da Landini rivendica tutte le battaglie contro un governo che vuole smantellare il welfare, non fa nulla contro il crollo di tutti i comparti della manifattura e men che meno per la riduzione del lavoro precario. La Cgil contesta il bluff del mercato del lavoro più forte dai tempi di Giuseppe Garibaldi, e critica le scelte di politica economica che non combattono l’inflazione e non mettono a riparo i lavoratori dipendenti dai nuovi rincari legati al prezzo del gas e dell’energia. Ma il cavallo di battaglia principale della Cgil di Landini riguarda, ovviamente, i referendum sulla precarietà e la sicurezza sul lavoro (non solo Jobs Act) e i diritti di cittadinanza. Dopo la bocciatura del referendum sull’autonomia differenziata, la Corte costituzionale ha ritenuto validi cinque quesiti referendari per i quali, nel 2024, la Cgil ha raccolto cinque milioni di firme.
Questi i temi: stop ai licenziamenti illegittimi. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, i lavoratori, assunti dal 7 marzo 2015 in poi, non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo. Sono oltre tre milioni e 500mila a oggi, e aumenteranno nei prossimi anni, i lavoratori penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. Per questo si chiede l’abrogazione della norma.
Più tutele per i lavoratori delle piccole imprese: nelle imprese con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo, oggi un lavoratore può al massimo ottenere sei mensilità di risarcimento, anche qualora un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene i dipendenti delle piccole imprese (circa tre milioni e 700mila) in uno stato di forte soggezione rispetto al titolare. Riduzione del lavoro precario: secondo la Cgil, in Italia circa due milioni e 300mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a dodici mesi, senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Più sicurezza sul lavoro: arrivano fino a 500mila, in Italia, le denunce annuali di infortunio sul lavoro. Quasi mille i morti. La Cgil chiede la modifica delle norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Più integrazione con la cittadinanza italiana: la Cgil chiede di ridurre da dieci a cinque gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter fare domanda di cittadinanza italiana, che una volta ottenuta sarebbe trasmessa ai figli e alle figlie minorenni.
Se questi sono i contenuti della battaglia referendaria della Cgil, è anche chiaro che la questione principale è diventata quella del quorum. L’impresa è giudicata impossibile da molti, ed è stata oggetto di discussioni e scontri anche all’interno del sindacato di corso d’Italia, dove alcune categorie erano state più scettiche al momento del lancio. Il segretario Landini è ottimista. “Con i referendum su lavoro e cittadinanza non stiamo semplicemente resistendo o facendo una lotta di difesa – ha detto durante l’assemblea di Bologna che ha lanciato ufficialmente la campagna referendaria –, stiamo proponendo una discussione per cambiare e dare un futuro al Paese”. “Vogliamo raggiungere il quorum, non siamo de Coubertin, non vogliamo solo partecipare – spiega Landini –, chi oggi, eventualmente, e mi auguro che non ci sia nessuno, di fronte a uno strumento referendario sancito dalla nostra Costituzione pensa che l’indicazione che darà sarà quella di non andare a votare, vuol uccidere la democrazia ed è contro qualsiasi idea di partecipazione libera delle persone”. In primavera avremo le risposte.