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Il paragone tra la Russia di Putin e la Germania hitleriana, a cui ha accennato il presidente della Repubblica in un passaggio di un suo discorso, era circoscritto al fatto che entrambi i Paesi ne hanno invaso altri, facendo valere una logica di “dominazione”: su questo sarebbe difficile dargli torto. Ma il punto è un altro. Pur sapendo che i paralleli tra periodi storici differenti valgono quello che valgono, su “terzogiornale”, fin dall’inizio del conflitto russo-ucraino, con svariati articoli, abbiamo evitato il confronto con la Seconda guerra mondiale, stabilendone piuttosto uno con la Prima (vedi per esempio qui). E questo per la ragione che, nel caso in questione, l’Ucraina e un insieme di altri Paesi hanno una componente russofona al loro interno, quando non sono proprio apertamente divisi tra filorussi e filoccidentali europeisti, come la Georgia o la Moldavia (vedi qui e qui), e in prospettiva eventualmente anche quelli baltici, a voler temere un effetto domino. Problemi del genere non andrebbero risolti con le guerre, ma con accordi che garantiscano il diritto a esistere di ciascuna delle comunità – un po’ sul modello dell’Italia e dell’Austria riguardo al Sud Tirolo o Alto Adige.
Ai nostri occhi, una “pace giusta” non consisterebbe tanto nell’appartenenza di determinati territori a questo o a quello Stato nazionale, quanto piuttosto nelle garanzie fornite ai cittadini, di qualsiasi lingua o nazionalità essi siano, di potere godere dei propri diritti. Cosa importa, dopotutto, stare di qua o di là da una frontiera se si ha una cittadinanza a pieno titolo? In mancanza di tale consapevolezza, come ai tempi delle rivendicazioni nazionali e nazionaliste che sfociarono nella Grande guerra, ci si pone sul piano inclinato di un conflitto che diventa “di posizione”, con un batti e ribatti, le trincee e quant’altro: appunto ciò che abbiamo visto in questi anni tra la Russia e l’Ucraina. Ma il paradosso della situazione attuale è dato dal fatto che, nel 1914, si trattava della dissoluzione dei grandi imperi, mentre si direbbe che per la Russia di Putin si tratti di ricomporre, almeno in parte, l’impero perso con il crollo dell’Unione sovietica. Di qui l’odio per la “rivoluzione di Maidan” in Ucraina, e per le altre cosiddette “di colore”, che però furono il prodotto di liti interne ai diversi Paesi e non di complotti orditi dall’Occidente.
Ora la guerra, che già dopo il primo mese dall’aggressione russa avrebbe potuto chiudersi con una trattativa – l’Ucraina aveva infatti ottenuto il suo risultato maggiore, quello di avere difeso la propria indipendenza –, per via di mediocri interessi geopolitici è finita nello stallo in cui versa. Uscirne al più presto è doveroso: però c’è il sospetto che non soltanto il negoziato che sta per aprirsi, con protagonisti gli Stati Uniti di Trump, possa passare sopra la testa dell’Europa, ma anche che quei cittadini di cui sopra, i soli che andrebbero sostenuti, non saranno in cima ai pensieri dei contendenti. La “pace” sarà così più che altro una tregua. Con possibili violazioni, se non proprio ripresa aperta delle ostilità, nei prossimi tempi.
A farci formulare una previsione di questo tipo non è unicamente la natura criminale del regime di Putin. È anche il fatto che, poiché i due sistemi, quello russo e quello statunitense, si vanno avvicinando sempre più, non hanno alcun interesse a risolvere veramente il contenzioso. Le caratteristiche generali dei due sistemi sono ovviamente quelle che erano già prima – si tratta cioè di varianti di una sola formazione economico-sociale capitalistica –, ma ciò che sta avvenendo è che gli Stati Uniti, sia pure ancora con notevoli anticorpi, si vanno riorganizzando politicamente in un regime oligarchico in cui la base del potere è data da quei pochi che hanno i soldi, per usare un’espressione un po’ rapida ma efficace, proprio come avvenuto in Russia.
È in questa situazione, dunque, che l’Unione europea dovrebbe (finalmente!) giocare la sua autonoma partita. Dopo avere detto e ripetuto pedissequamente che l’Ucraina poteva vincere su tutta la linea, riconquistando i propri territori, magari pure la Crimea persa nel 2014 – cosa palesemente impossibile –, dovrebbe ora, realisticamente, far valere la propria vicinanza all’Ucraina imponendosi come partner essenziale nei negoziati.
Le elezioni del 23 febbraio in Germania saranno un passaggio decisivo. È indispensabile infatti che quel Paese – messo da parte il pericolo costituito dall’estrema destra, su cui puntano i trumpiani per indebolire il vecchio continente – ritorni ad avere un ruolo di leadership nell’Unione, come ai tempi di Merkel. Purtroppo la cancelleria Scholz è stata travolta da una guerra che nessuno si aspettava; e la annosa dipendenza dal gas russo, con tutto ciò che il conflitto ha comportato nel senso della crisi economica e dell’urgenza di ripensare gli approvvigionamenti energetici, ha privato la Germania della spinta necessaria.
Ma si sta aprendo una nuova stagione in cui l’alternativa per l’Unione sarà vivere o morire. È diventato evidente – ormai a tutti, anche agli avversari di un’Europa unita – che con il business as usual non si può andare avanti. O ci sarà un rilancio politico e una riforma dell’Unione o si andrà verso un suo completo ridimensionamento e forse scioglimento. Il governo di grosse Koalition, che dovrebbe formarsi all’indomani del passaggio elettorale tedesco, sarà un protagonista della sfida che si profila.