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Libri sparsi a terra, le pagine strappate: così in Israele si cerca di fermare la diffusione del pensiero critico. Due storiche librerie di Gerusalemme Est occupata, note per la loro specializzazione in volumi sulla storia e l’identità palestinesi, sono state oggetto di un raid da parte della polizia israeliana, culminato nell’arresto di Mahmoud e Ahmad Muna, rispettivamente il proprietario e suo nipote, gestori dell’Educational Bookshop. Il centro culturale, fondato nel 1984, è un faro di vita intellettuale in una città segnata da conflitti e divisioni, con filiali che offrono libri in arabo e in inglese, frequentate da una vasta gamma di persone, dai palestinesi agli israeliani, fino ai diplomatici stranieri.
A due notti dall’arresto ingiustificato, definito “duro e brutale” dai librai (“Times of Israel”), Ahmad Muna e lo zio sono stati rilasciati, sotto le pressioni internazionali in difesa della libertà di espressione e diverse manifestazioni fuori dal tribunale. Persino l’ambasciatore tedesco a Israele ha commentato su X, raccontando di frequentare l’Educational Bookshop e di considerarla un punto di riferimento culturale. Nonostante la libreria abbia riaperto, Mahmoud e Ahmad Muna non potranno comunque tornarci per altri venti giorni, e dovranno rimanere agli arresti domiciliari per altri cinque.
Nessuno però potrà cancellare le immagini delle telecamere di sorveglianza, condivise dalla famiglia Muna, che mostrano gli agenti di polizia intenti a raccogliere libri, alcuni dei quali gettati in sacchi della spazzatura, lasciando il negozio devastato, con volumi e materiale a terra. Un atto che ricorda scenari distopici, come quello descritto in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (e nell’omonimo film di Truffaut), in cui i libri – portatori di idee e sapere – vengono bruciati dai regimi per cancellare ogni traccia di pensiero indipendente.
L’accusa rivolta a Mahmoud e Ahmad Muna è quella di “vendita di libri contenenti incitamento all’odio e sostegno al terrorismo”, con riferimento ai volumi che affrontano i temi del nazionalismo palestinese. Gli agenti in borghese, “prendevano qualsiasi libro non gli piacesse”, ha affermato alla stampa uno dei fratelli Muna. “Prendevano qualsiasi libro con una bandiera palestinese”. Alcuni volumi sono bestseller internazionali, come Wall and Piece di Banksy, Gaza in Crisis dell’accademico statunitense Noam Chomsky, libri dello studioso israeliano Ilan Pappé, e Love Wins del regista e fotografo canadese Afzal Huda. Spicca un libro per bambini da colorare, intitolato From the River to the Sea (“Dal fiume al mare”), un’espressione che indica una Palestina unita, ma ritenuta un incitamento al terrorismo da Israele. Allude infatti alla liberazione dei territori occupati dal 1948, delle aree che ricongiungerebbero Cisgiordania e Gaza.
Nonostante la prova di forza, la paura nei confronti dei libri dimostra implicitamente la debolezza dei sistemi autoritari, che temono lo studio, la cultura condivisa, in quanto premesse della loro fine. Mesi fa, rimbalzava sui social un video di un uomo, riccioli e kippah sulla testa, che leggeva un libro sionista a una bambina, probabilmente la figlia. La storia raccontava di un gruppo di valorosi coloni che “riconquistavano” delle aree amene nell’attuale Libano. Queste sono le leggende che piacciono in Israele. E se continuano a crescere generazioni che credono legittima l’occupazione dei territori, e lo sterminio di altre e altri, in nome del benessere esclusivo della propria comunità, poco rimarrà di ciò che conosciamo oggi.
Per fortuna l’incursione ingiustificata e violenta della polizia israeliana ha suscitato una vasta eco di condanne, sia da parte di difensori dei diritti umani sia di intellettuali. La relatrice speciale alle Nazioni Unite per i territori palestinesi, Francesca Albanese, ha definito l’azione della polizia “scioccante” e “un attacco alla vita intellettuale e culturale di Gerusalemme Est”. E Paola Caridi, giornalista e saggista, ha espresso la sua indignazione sui social, definendo l’arresto “assurdo” e sottolineando che “non c’è nessun’altra accusa se non quella di vendere libri”. Caridi ha descritto l’Educational Bookshop come “la più bella libreria di Gerusalemme, dell’intera città”, un luogo di resistenza culturale e di dialogo, minacciato dalla repressione. Le sue parole evocano la triste consapevolezza che i regimi autoritari, quando sentono il proprio potere vacillare, o si trovano a confronto con la verità, tentano di cancellare la cultura. I libri, simboli di libertà, diventano i bersagli di un lavaggio del cervello istituzionale, che mira a privare le persone degli strumenti di riflessione e di identità.
Questi eventi, per quanto terribili per chi li vive, aiutano a scuotere l’opinione pubblica e a favorire la presa di coscienza di chi ancora difende il regime. Davanti al tribunale di Gerusalemme, una sessantina di persone si sono riunite in segno di solidarietà con i librai arrestati, protestando contro la violenza delle autorità israeliane e difendendo il diritto alla libertà di espressione. Tra loro, Sidra Ezrahi, un’anziana donna israelo-americana ottantenne, ha dichiarato: “Nei miei sessant’anni qui ho visto di tutto, ma questo arresto è incredibile. Questo è ciò che fanno gli Stati fascisti”. Nonostante siano stati rilasciati a due giorni dall’arresto, l’incursione della polizia israeliana all’Educational Bookshop rappresenta molto più di un’azione contro una libreria: è un attacco diretto alla libertà di informazione e alla possibilità di preservare l’identità palestinese, che mette in luce il profondo contrasto tra la memoria collettiva di un popolo e il tentativo di cancellarla.