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Anche in Slovacchia – da tempo in bilico tra l’Unione europea, di cui fa parte, e la Russia – imperversano le proteste filoccidentali. Bratislava è anche nella Nato, ma il suo governo ormai guarda a Mosca con sempre maggiore interesse, avendo sospeso la politica delle sanzioni contro la Russia e l’invio di armi all’Ucraina. A gestire questa delicata situazione è Robert Fico, attuale presidente del governo slovacco, che aveva già ricoperto l’incarico dal 2006 al 2010, e successivamente dal 2012 al 2018. Un politico controverso, costretto alle dimissioni nel 2018, dopo le proteste successive all’uccisione del giornalista Ján Kuciak (insieme con la sua compagna) che aveva denunciato i legami tra alcuni esponenti del suo governo e la ’ndrangheta.
Fico è esponente del Partito direzione socialdemocratica (sigla in slovacco Smer), primo partito del Paese nelle elezioni del 2023, con il 22,9%. Da mesi, come dicevamo, le strade e le piazze del Paese si sono riempite di manifestanti. Le proteste si sono estese anche alla Repubblica ceca contro un ulteriore possibile avvicinamento a Mosca. Anche se – secondo la Commissione europea – non ci sarebbe alcun segno che la Slovacchia stia pensando di lasciare l’Unione, pesa come un macigno l’incontro, nel dicembre scorso, tra Fico e Putin, così come fecero Orbán e l’ex cancelliere austriaco, il popolare Karl Nehammer.
Il governo slovacco si regge grazie a una coalizione formata appunto da Smer, dal Partito socialdemocratico Hlas, nato da una scissione del partito del premier, il cui leader è l’attuale presidente della Repubblica, Peter Pellegrini, e dalla formazione di estrema destra Partito nazionalista slovacco. Per un totale di 76 seggi su 150, dunque con una maggioranza fragilissima all’Assemblea, tanto che l’opposizione aveva annunciato una mozione di sfiducia, approfittando del disappunto manifestato da quattro deputati di Hlas proprio nei confronti dell’incontro Fico-Putin; questi però avevano subito avvertito l’opposizione che non l’avrebbero votata, limitandosi a chiedere un rimpasto di governo. Da qui il ritiro della mozione stessa.
Visti i numeri (come del resto ha sostenuto lo stesso Fico) l’ipotesi di elezioni anticipate è tutt’altro che sventata. Il partito più forte dell’opposizione sarebbe ora Slovacchia progressista, guidata da Michal Šimečka, di stampo liberale ed europeista, nelle cui file è presente l’ex presidente della Repubblica, Zusana Čaputová, in carica dal 2019 al 2024. Secondo i sondaggi i filo-occidentali potrebbero godere del 23,9% dei consensi, superando così Smer, che calerebbe al 18,4. Hlas avrebbe l’11,5% e il Partito nazionalista slovacco appena il 2,1%. Un ridimensionamento importante – a tutto vantaggio di altri partiti di opposizione come Libertà e solidarietà, al 6,7%, Slovakia al 6,3% e i Democratici con il 4%. Dall’altro lato, a rendere più precaria, ancora secondo i sondaggi, la tenuta del governo in caso di elezioni, è il rafforzamento del movimento Republika, russofilo e di estrema destra, con il quale Fico però non avrebbe previsto alleanze. Questo ridimensionamento andrebbe spiegato anche con la crisi del sistema sanitario e con l’aumento del costo della vita. Come nel caso della Georgia, della Moldavia e della Serbia (vedi qui, qui, qui, e qui), collocate al di fuori dell’Unione, anche la Slovacchia si presenta spaccata in due parti, che per le note ragioni geopolitiche non sembrano al momento orientate al dialogo, né hanno possibilità di formare maggioranze stabili, sebbene, come abbiamo visto, il blocco europeista sia favorito in caso di voto.
La Slovacchia dipende dal gas russo, in una qualche misura il principale motivo che sta dietro la politica nei confronti di Mosca. La principale preoccupazione di Fico riguarda la scadenza del contratto, firmato nel 2019, con la russa Gazprom, che a sua volta può fare arrivare la materia prima a destinazione grazie a un accordo con Kiev, per il diritto di transito, che vale circa ottocento milioni di dollari l’anno e garantisce a Mosca un accesso al mercato europeo. Ma l’Ucraina ha manifestato l’intenzione di non rinnovare l’intesa. Per assicurarsi la fornitura della preziosa risorsa, Fico dovrebbe fare come l’ungherese Orbán, che continua a rifornirsi attraverso il gasdotto TurkStream, che passa da sud attraverso il Mar Nero. Ma si tratta di una via alternativa che costerebbe a Bratislava 220 milioni di dollari in più.
La vicinanza dei due ex Paesi del blocco del socialismo reale con un’Austria in cui l’estrema destra è maggioranza relativa (anche se è di ieri la notizia che il tentativo di formare un governo con i popolari è andato a monte) indebolisce la posizione di un’Europa che, praticamente, non sta toccando palla sulla questione russo-ucraina, quando invece avrebbe dovuto essere la prima a cercare un’intesa, smarcandosi dalla gestione angloamericana del conflitto. Così, di fronte ai primi contatti tra il presidente statunitense Trump e quello russo Putin, suona patetico il lamentodell’Unione – i cui pilastri democratici, ovvero i popolari e i socialisti, sono dei giganti dai piedi d’argilla – con il quale ha ricordato che “non può essere tagliata fuori perché qualsiasi accordo si sostiene solo con l’Europa”. Allo stesso modo, paradossalmente, potrebbe essere emarginata l’Ucraina, a cui il tycoon ha chiesto di pagare gli aiuti militari in terre rare. Insomma, che quella dell’Ucraina fosse una “guerra per procura”, era stato denunciato da molti, quantunque puntualmente infilati in vergognose liste di proscrizione. La verità ora si sta facendo strada, e a essere sconfitti potrebbero essere proprio gli ucraini e gli europei, con l’eccezione dei Paesi filorussi – come appunto la Slovacchia –, e delle forze politiche di estrema destra nel resto del continente, che se ne starebbero soddisfatte a guardare la piccola Yalta del Ventunesimo secolo.