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Si tratta forse di un aspetto non messo a fuoco: sotto un profilo nient’affatto secondario, la trumpizzazione degli Stati Uniti consiste nel loro assumere un volto da Paese dell’America latina. Prima di Trump, infatti (la cui figura, ricordiamolo, ha dei punti di contatto con quella di Silvio Berlusconi, non foss’altro che per la loro comune provenienza da un impero imprenditoriale costruito a partire dal mattone), la parte del caudillo era recitata da “uomini forti” tipicamente latinoamericani. Parliamo di dittature più o meno velate (talora anche “di sinistra”, se vogliamo) scaturite dall’implosione, per così dire, di un sistema presidenzialista in direzione di forme autoritarie. Il peronismo, che al riguardo può essere assunto come una sorta di idealtipo, altro non era che questo (al netto della presenza femminile di Evita, che ne rendeva più complessa e affascinante l’immagine): il carisma di un uomo che diveniva il protettore della nazione. Anche nel suo caso per via elettorale, non con un golpe.
Ora, i sociologi del peronismo ci dicevano che le ragioni di un fenomeno del genere andavano ricercate nello sforzo di modernizzazione proprio di un Paese arretrato: ciò faceva sì che se ne vedessero anche gli aspetti positivi, nonostante fosse chiarissimo che qualsiasi democrazia, come pure qualsiasi forma di conflitto sociale, fossero soffocati in una nebbia dal forte contenuto nazional-populista. Il carattere modernizzante, ammesso che mai vi sia stato, non è certo però la sostanza del trumpismo, che, se fosse venuto fuori nel Novecento, avrebbe forse contribuito a ridurre la sensazione di divario tra l’America del Nord e quella del Sud, avvicinando le due metà del continente più di quanto abbiano potuto, invece, gli Stati Uniti liberaldemocratici dell’imperialismo yankee, stando al modo corrente di designarlo nei Paesi latinoamericani.
Allora come sta questa cosa? Com’è possibile che la storia ci riservi la beffa di un fenomeno ormai regressivo, cioè quello della trumpizzazione, che appare una riedizione, in un diverso contesto, di qualcosa in cui fu possibile individuare degli aspetti progressivi, come nel caso del peronismo? La risposta a questa domanda sta in una filosofia della storia che la vede sempre e soltanto sotto una dimensione “a più velocità”: il passato non è mai passato del tutto, e può riattivarsi, all’occorrenza, anche sotto condizioni causali differenti da quelle in cui apparve la prima volta.
Nell’insieme, il fatto che l’Occidente vada trumpizzandosi – non senza alcuni anticorpi, per fortuna, non in modo lineare – è il segno di un suo lento declino. Non era pensabile, fino a pochi anni fa, che un personaggio come Trump, un criminale che la giustizia statunitense non è riuscita a fermare, potesse essere eletto per la seconda volta alla presidenza della maggiore potenza mondiale; se ciò è avvenuto, dobbiamo giocoforza modificare le nostre categorie. Ma, per altri versi, la cosa era già visibile una trentina di anni fa a chi avesse voluto vedere: il crollo dell’Unione sovietica non aveva reso il mondo meno conflittuale, e neppure aveva consegnato all’Occidente lo scettro di una egemonia incontrastata. Al contrario, aveva cominciato a metterne in dubbio la supponenza democratica, privata ormai del suo termine di paragone storico, la presunzione ideologica di essere comunque dalla parte del bene, in fin dei conti la stessa potenza economica.
Questa situazione, detta anche di disordine mondiale, culmina oggi nella incredibile somiglianza tra le figure di un presidente statunitense di stampo latinoamericano, e di un uomo forte russo, direttamente proveniente dall’ex Kgb: sono queste due incarnazioni “storico-mondiali” (per usare un po’ ironicamente un’espressione di Hegel) che ci consentono di considerare quella di Trump come una formula politica in linea con le tendenze autoritarie presenti un po’ ovunque, anche in Europa. Perciò tener fermo al progetto dell’Unione europea, sforzarsi anzi di svilupparlo introducendo in esso consistenti elementi di federalismo, è la prima risposta – non l’unica, certamente – che bisognerebbe iniziare a dare se non si vuole rinunciare a quello spirito di progresso che, nonostante le sue palesi contraddizioni, non può che essere ancora la nostra stella polare.