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Russia sì, Russia no. Europa sì, Europa no. La spaccatura sta caratterizzando diversi Paesi europei, come la Georgia e la Moldavia (vedi qui, qui, e qui), fuori dall’Unione europea, e, al suo interno, la Romania. A questo elenco, come mostrano le proteste di questi giorni, possiamo aggiungere la Serbia, il cui presidente Aleksandar Vučić è da tempo incerto sulla sua collocazione geopolitica. Il leader serbo è in carica dal 2017, anno del suo insediamento alla presidenza della Repubblica, dopo essere stato primo ministro dal 2014 al 2017. Fin da subito è stato oggetto di forti contestazioni, accusato di tendenze autoritarie simil-Orbán e di volere porre sotto controllo i media e la magistratura.
Ma veniamo ai fatti. A dare nuovo fuoco alle polveri, tre mesi fa, il crollo di una tettoia in una stazione ferroviaria a Novi Sad, seconda città del Paese dopo la capitale Belgrado, che aveva provocato la morte di quindici persone. Un fatto terribile, ma ordinario oltre che possibile in un contesto di normalità, non nel Paese balcanico, dove incuria e corruzione, tra le cause dell’incidente, sono pane quotidiano. Nel caso specifico, l’azienda responsabile della costruzione aveva smentito che ci fossero stati degli interventi, ma poi proprio un ingegnere incaricato dei lavori aveva fornito una versione contraria dei fatti. Immediate le proteste – iniziatenell’Accademia delle arti di Belgrado in autunno – culminate, lo scorso 2 febbraio, nella più grande manifestazione antigovernativa degli ultimi trent’anni. La mobilitazione – dietro alla quale, secondo il governo, ci sarebbero agenti stranieri – ha in un primo momento riguardato solo gli studenti che hanno occupato 85 facoltà; poi si è allargata ad altre categorie, in particolare agliagricoltori, agli artisti, agli intellettuali, agli avvocati. Non sono mancati scioperi generali che hanno bloccato scuole e negozi.
Dietro alle proteste non c’è una vera e propria organizzazione politica, anche se i partiti di opposizione, molto divisi tra loro, hanno deciso di aderire. La vastità della mobilitazione ha costretto alle dimissioni, lo scorso 28 gennaio, il primo ministro, Miloš Vučević, presidentedel Partito progressista serbo – fondato nel 2008, di stampo nazionalista-conservatore –, in carica dallo scorso 2 maggio. Decisione accelerata da un’aggressione subita da un gruppo di manifestanti, di cui lui si è assunto la responsabilità. Importante ricordare che Vučević fu sindaco proprio di Novi Sad, nel periodo di costruzione della linea ferroviaria dell’alta velocità Belgrado-Budapest, finanziata da Pechino: perciò è ritenuto tra i responsabili del disastro. Al riguardo, i manifestanti chiedono la pubblicazione di tutti i documenti relativi al progetto di rinnovamento della stazione. E a dare le dimissioni è stato anche l’attuale sindaco della città, Milan Djurić.
Vučić sperava che, con l’uscita di scena del primo ministro, dunque del governo, le acque si sarebbero calmate, ma non è stato così, ed è molto probabile che ci si avvii verso elezioni anticipate, malgrado ci sia circa un mese per formare un nuovo governo. Anche un nuovo appuntamento elettorale preoccuperebbe, però, i contestatori, che temono ennesimi brogli – più o meno presunti, più o meno reali – da parte di Vučić. Il movimento Kreni-Promeni (“Parti e cambia”), tra i principali organizzatori della protesta, proporrebbe un governo di transizione composto da tecnici individuati dai manifestanti. Savo Manojlović, considerato leader dell’opposizione, arrestato a novembre nel corso di una manifestazione, è stato chiaro: “Non ci saranno elezioni. Vogliamo un governo di transizione, composto da esperti, senza rappresentanti del governo o dell’opposizione”.
Non è la prima volta che la popolazione serba – desiderosa di vivere in un Paese più moderno e democratico – contesta i vari governi che si sono succeduti. Ma questa volta siamo di fronte a una mobilitazione differente. “Diversamente dalle proteste degli ultimi anni – dice Giorgio Fruscione, politologo, ricercatore presso l’Ispi (Istituto studi politiche internazionali), residente a Belgrado – queste sembrano più trasversali e partecipate. Soprattutto, sembrano evidenziare profonde divisioni sociali, nonché un’erosione dei consensi per il Partito progressista serbo (in realtà nazional-conservatore, ndr) del presidente Vučić, il cui regime si è retto per oltre dieci anni su un controllo totale a livello politico e sociale, nonché su uno schema di corruttele che potrebbe presto seguire le stesse sorti della tettoia di Novi Sad”.
Fin dal 2020 – e anzi, fin dall’inizio di questo millennio – la Serbia è stata scossa da numerose quanto caotiche proteste. In quell’anno, durante la pandemia, lo spunto fu il tira e molla del governo sul lockdown. Secondo i manifestanti era stato prima ritirato, per consentire il voto, e poi ripristinato a causa di un aumento dei contagi. Ancora, tra il 2021 e il 2022, ci furono manifestazioni contro lo sfruttamento del litio, operazione ad alto impatto ambientale. L’estrazione fu sospesa, per poi riprendere nel 2024, con nuove conseguenti proteste. Com’è noto, il litio è indispensabile per la costruzione delle batterie delle vetture elettriche, nell’ambito della transizione energetica, la cui attuazione si scontra però con questa paradossale contraddizione ecologica.
Le proteste del 2023, inoltre, trassero spunto da un episodio che i manifestanti vollero politicizzare. Ci fu una sparatoria a opera di un giovane, che provocò la morte di diciannove persone, tra cui nove bambini della scuola Ribnikar di Belgrado. Un tragico evento utilizzato da tutti, governo e opposizione secondo cui, dietro quell’evento, c’erano anni e anni di una violenza che aveva intossicato la società serba. Un’interpretazione difficilmente verificabile, ma tanto bastò per fare esplodere nuove contestazioni e accuse. Nello stesso anno, a dicembre, ci furono le elezioni generali vinte nettamente da Vučić, che fu di nuovo accusato di brogli, tanto da dover ripetere l’elezione del sindaco di Belgrado.
Come dicevamo, sul futuro del Paese, dopo le ultime ennesime contestazioni, regna l’incertezza assoluta: “Dopo anni di proteste – sottolinea Fruscione – la società serba non sembra voler tollerare ulteriormente un governo, la cui deriva autoritaria ha gradualmente compromesso gli standard di vita della popolazione, con la tragedia di Novi Sad a simboleggiare come la corruzione possa essere letale”. Ma anche in questo caso il Paese è dilaniato rispetto alla sua collocazione geopolitica. Il tema non è presente direttamente nelle proteste antigovernative, ma è come se lo fosse, viste le caratteristiche semiautoritarie della classe politica serba. La quale, comunque, cerca di mantenere contatti produttivi sia a Ovest sia a Est. Dunque, obiettivo strategico è l’ingresso nell’Unione europea, sviluppando nel contempo l’amicizia con la Cina e la storica fratellanza con la Russia.
Il legame con il vecchio continente sembra però fuori discussione, visto che il 60% degli scambi commerciali mondiali della Serbia è con l’Europa. Ma con il Dragone sono stati siglati diversi accordi commerciali, uno di questi finalizzato al libero commercio Serbia-Cina, che consentirà a oltre ventimila prodotti serbi, per lo più esenti da dazi, di raggiungere l’enorme mercato cinese. Resta poi il legame con Mosca, reso delicato dal conflitto tra l’Ucraina e la Russia. Belgrado, pur non essendosi unita al coro delle sanzioni, in sede Onu ha condannato l’invasione russa, e si è espressa favorevolmente all’integrità territoriale ucraina. “Ma quanto ancora potrà essere equilibrista la Serbia di Vučić?” – si chiede Fruscione. Molto dipenderà, ovviamente, da una possibile risoluzione del conflitto tra i russi e gli ucraini, che con l’arrivo alla Casa Bianca di Trump sembrava se non dietro l’angolo almeno più vicina. Ma i deliri del tycoon, che sembra in tutt’altre faccende affaccendato, hanno per il momento messo da parte l’avvio di un’eventuale trattativa.