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Hanno scioccato il mondo le dichiarazioni di Donald Trump sul futuro di Gaza. Seduto alla Casa Bianca, dinanzi a un camino acceso, ha raccontato – accanto a un Benyamin Netanyahu impettito e sorridente – quello che secondo lui sarà il futuro dei palestinesi della Striscia. Dovranno abbandonare le proprie case e la propria terra per lasciare agli Stati Uniti lo spazio e il tempo di costruire una “riviera”, un paradiso turistico per “tutte le persone della zona”. Washington si prenderebbe addirittura l’onere, dimostrando tutta la sua magnanimità, di bonificare le centinaia di “pericolose bombe inesplose” disseminate nella Striscia. Bombe che, per la stragrande maggioranza, riportano il marchio “made in Usa”, come denunciato dal servizio del programma televisivo statunitense della Cbs, “60 Minutes”. Trump e i suoi funzionari l’hanno presentata come un’operazione umanitaria di soccorso agli “sfortunati” abitanti di Gaza, che si sarebbero ritrovati, per un tiro meschino della sorte, a vivere in un luogo di guerra e di morte.
Il racconto del tycoon, impacchettato nella cornice calda e familiare di un salotto casalingo, potrebbe essere persino credibile se non fosse recitato al fianco di un capo di Stato sulla cui testa pende un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra. E se a pronunciarlo non fosse il presidente del Paese che ha fornito soldi e armi per compiere una delle più spietate stragi della storia. Più di diciassettemila bambini ammazzati. E quelli che si immagina saranno infine più di sessantamila morti.
Come spesso accade quando una tesi politica assurda viene esposta senza articolazioni, ma con spigliata decisione e ostentata sicurezza, una buona parte dei leader e degli analisti non è riuscita a illustrare perché sia semplicemente impraticabile. I palestinesi di Gaza, protagonisti di un dramma inconcepibile, si sono trovati nell’improbabile posizione di dover spiegare perché non lasceranno la propria terra a coloro che per sedici mesi (più qualche anno, in precedenza) l’hanno trasformata in un recinto senza vie di fuga, e bombardata fino a seppellire case, infrastrutture e il senso stesso di umanità.
Persino il premier Netanyahu, a cui non mancano certo immaginazione e intraprendenza, ha dichiarato che il piano di Trump “va oltre”. E così, in un attimo, tutte (o quasi) le componenti politiche israeliane si sono trovate unite sotto la lanterna del presidente a stelle e strisce. Una luce che qualcuno ha descritto con toni messianici, come il rabbino Aryeh Deri, dirigente del partito ultraortodosso Shas, che ha definito Trump “messaggero di dio a sostegno del popolo di Israele”. Il leader primatista Ben-Gvir, che ha lasciato governo e ministero perché contrario a qualsiasi cessate il fuoco a Gaza, ha detto che tornerà a sostenere Netanyahu se il piano sarà portato avanti. Anche il capo dell’opposizione, Yair Lapid, ha accolto con favore l’idea, e si è spinto a proporre per il tycoon il premio Nobel per la pace. Il ministro estremista Smotrich ha letto, nella proposta, la tomba dell’idea “pericolosa di uno Stato palestinese”.
Le reazioni internazionali non sono state affatto fulminee. L’Unione europea e diverse istituzioni si sono limitate a ripetere la solita formula che auspica la “soluzione a due Stati”, una frase rituale che è ormai svuotata di qualsiasi significato, senza un piano concreto e la forza per obbligare Israele a rispettarlo. Gli Stati arabi si sono espressi, invece, con estrema chiarezza contro la cacciata dei palestinesi da Gaza e contro il loro “riposizionamento”. Trump ha parlato nei giorni scorsi di un trasferimento in Egitto e Giordania, ma entrambi i governi hanno categoricamente smentito l’ipotesi.
Non è semplicemente una questione di principio. Ovunque andranno, i palestinesi organizzeranno una resistenza. E ovunque ci sarà la resistenza, proverà a combattere Israele, e Israele, di questo tutti sono certi, non si farà scrupoli a bombardare, invadere e distruggere. Anche il principe saudita Mohammad bin Salman ha dichiarato che stabilire uno Stato palestinese “è una posizione ferma e incrollabile”, provando a correre ai ripari dopo le dichiarazioni di Trump e Netanyahu che hanno dato per consolidata la ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Relazioni che, nonostante le apparenze, nella realtà non si sono mai interrotte, neanche durante la guerra di Gaza, rappresentando una parte essenziale di qualunque piano essi abbiano per il loro “nuovo” Medio Oriente. “Dovrebbero farlo con la forza” – ci dicono da Gaza – “ma abbiamo resistito a questa guerra, neanche tutto l’esercito degli Stati Uniti riuscirebbe a cacciarci”.
In effetti la soluzione ideale per Trump, quella di un allontanamento spontaneo dell’intera popolazione per lasciare via libera al controllo completo dell’area e alla lucrosa ricostruzione del tratto di costa, non è praticabile. Sarebbe irragionevole pensare che l’offerta di una casa e di un lavoro sicuro all’estero non convincerebbe una parte di quei gazawi, che hanno perso ogni cosa, a trasferirsi. Ma c’è una numerosa e fiera componente della popolazione che vuole rimanere, nonostante tutto e a ogni costo. È una questione di identità, singola e collettiva, di tradizioni e di storia, è la necessità di onorare il sacrificio di generazioni, la difesa di un diritto considerato insieme umano e divino.
E poi, dopo Gaza, non resterebbe che la Cisgiordania. Netanyahu vuole il via libera degli Stati Uniti all’annessione formale di larga parte del territorio palestinese occupato. Si tratterebbe del riconoscimento ufficiale di un processo di acquisizione di terre in atto da decenni, nonostante rappresenti una violazione del diritto internazionale. Dal 7 ottobre 2023, Israele ha realizzato la più grande confisca di terre degli ultimi venticinque anni, e l’attuale azione militare in Cisgiordania, gli arresti e le chiusure dei checkpoint (vedi qui), rientrano in una manovra che Tel Aviv porterà avanti, anche senza l’ok di Washington. Ma se, tra quattro settimane, Trump, il presidente che ha tagliato i fondi all’Unrwa e alle agenzie umanitarie, riconoscerà la Palestina occupata come territorio israeliano, l’esercito e i coloni non avranno freni e le leggi internazionali, da sempre utilizzate dall’Occidente contro i suoi nemici, verranno definitivamente seppellite, libere dall’ipocrisia di una malcelata superiorità morale che mostra oggi finalmente il suo vero volto.