![](https://www.terzogiornale.it/wp-content/uploads/2025/02/Minniti-702x526.jpg)
Ci sono figure politiche che, col trascorrere del tempo, assumono tratti quasi caricaturali. E questo non perché si trasformino o cambino le loro opinioni, ma proprio perché le conservano immutate anche in situazioni completamente diverse rispetto a quelle che le avevano generate. Lo sforzo di rimanere uguali a se stessi le deforma, ne evidenzia gli aspetti che una volta rimanevano celati. Si tratta, probabilmente, del “complesso della mummia” di cui parlava il critico cinematografico André Bazin: in pratica della necessità psicologica che spinge l’uomo a cercare di “salvare l’essere mediante l’apparenza”, perpetuando atteggiamenti che gli diedero in passato notorietà.
Questa la prima impressione che si ricava dal ritorno clamoroso dell’ex ministro degli Interni, Marco Minniti (di cui vedi qui un ritratto), con una intervista sull’affare Almasri rilasciata al “Corriere”, cui hanno fatto seguito altre dichiarazioni del medesimo tenore nel corso della trasmissione radiofonica “Zapping”. Le argomentazioni di Minniti, che sostiene con vigore le scelte di Meloni, perfino accusata tra le righe di non essersi finora difesa adeguatamente, sono in buona parte quelle note, pubblicamente espresse già all’epoca dello scellerato patto con la Libia nel 2017. Si possono ridurre a tre: in primis il riferimento a una superiore ragion di Stato, per cui la Libia sarebbe una “questione di interesse nazionale”, a causa di una altrimenti insostenibile pressione migratoria; in secondo luogo, l’Africa è un crocevia di terroristi da tenere a bada, cui viene ad aggiungersi – terzo elemento – la nuova questione economico-geopolitica: “Senza il gas del Nord Africa non sarebbe stato possibile chiudere i rubinetti con la Russia”.
Così, nella trasmissione radiofonica, viene rievocato lo spettro dei “250.000 arrivi di clandestini”, che sarebbero stati previsti per il 2018, e che il suo provvido intervento evitò; e torna l’ossessione, già sbandierata in lungo e in largo all’epoca, riguardo a un’invasione di immigrati che avrebbe costituito una minaccia mortale per la democrazia. Gli arrivi avrebbero certamente prodotto un sommovimento politico nel Paese, con “gli italiani che assalivano i pullman che portavano i migranti nei centri di smistamento”.
Che senso ha allora la ricomparsa di un personaggio giustamente sparito dalla scena politica, variamente scaricato, perfino dal suo ex mentore Massimo D’Alema, che già nel 2017 lo liquidò, dichiarando a una Festa della sinistra, che si teneva sul lungomare di Reggio Calabria, proprio la città del ministro: “Minniti un mio delfino? Non ho mai avuto delfini”; e aggiunse a proposito degli accordi con la Libia: “L’accordo con la Libia è uguale a quello di Berlusconi con Gheddafi. Io ho sempre considerato Minniti un tecnico della sicurezza. Un po’ la sua origine familiare e un po’ la sua formazione comunista hanno fatto di lui un militare più che un politico”. E ancora: “Ho visto che ha detto che sulla difesa dei diritti umani dei migranti si metterà in gioco. Spero che lo faccia, perché finora non ho avuto questa impressione”.
La ricomparsa della mummia di Minniti pare dunque svolgere due funzioni: anzitutto, quella di scaricare il Paese dalle responsabilità sempre più evidenti nelle terribili sofferenze inflitte ai migranti con la detenzione in Libia – non a caso l’ex ministro, nell’intervista radiofonica, sostiene che i primi campi realizzati quando lui era ancora in carica erano belli e ben organizzati, e che avevano avuto anche il placet di organizzazioni internazionali; inoltre di supportare la goffa azione del governo, non mancando di dare un colpo ai magistrati, rei di avere avviato un’azione discutibile e intempestiva. A fronte della ormai innegabile tragedia dei campi, divenuta palese e di dominio pubblico, in maniera del tutto autoassolutoria, la responsabilità viene scaricata sulla cattiveria dei libici, mentre, al tempo stesso, avere rispedito Almasri in patria, a proseguire il suo mestiere di torturatore nei campi, ignorando il mandato di cattura internazionale, sarebbe un’azione meritoria di cui Meloni dovrebbe andare fiera. Il tutto richiama alla mente quanto disse il presidente Nixon del dittatore del Nicaragua Somoza: “Somoza è un macellaio, ma è il nostro macellaio”.
Perno delle argomentazioni di questo Nosferatu-Minniti è la ragion di Stato. Si tratta di un concetto politico tutt’altro che limpido, secondo cui i dirigenti sono autorizzati ad adottare misure straordinarie per proteggere l’integrità e la sicurezza dello Stato, in spregio a quelle che sono le norme legali in vigore e l’etica cui dovrebbe essere orientata l’azione pubblica. Già Hannah Arendt metteva bene in luce i rischi di simili pratiche, che spesso sfociano in violazioni sistematiche dei diritti umani. I regimi autoritari hanno fatto abitualmente ricorso alla superiore ragion di Stato per giustificare le loro politiche. Il punto centrale dell’argomentazione di Arendt, che torna in questo frangente di attualità, è però che queste pratiche non solo rappresentano un rischio per la libertà individuale e per la giustizia, ma generano una sorta di “abitudine” al male, un’assuefazione alla irregolarità e alla capricciosità selettiva dell’intervento politico, con il pericolo dello slittamento in direzione della completa arbitrarietà e della corruzione.
Rimane aperta un’ulteriore domanda: fino a che punto uno Stato può spingersi, nella sua supposta autodifesa, senza compromettere i suoi principi fondativi e le convenzioni internazionali? In casi analoghi a quello Almasri, i tribunali internazionali, di fronte a situazioni in cui l’azione di uno Stato, anche se presentata come essenziale per la sua sicurezza nazionale, contraddiceva gli obblighi internazionali, hanno giudicato che la ragion di Stato non esonerava i governi dal rispetto dei diritti dell’uomo, in particolare quando sono toccate questioni fondamentali, come la proibizione della tortura.
Nonostante gli sforzi giustificatori di Minniti, c’è dunque un problema enorme: gli accordi con la Libia, da lui sottoscritti, hanno reso l’Italia complice di una situazione insostenibile, di cui il caso Almasri non è che la punta dell’iceberg. Vadano come vadano gli sviluppi giudiziari della vicenda, tutto sommato ormai scarsamente rilevanti, lo scandalo dei campi pesa sulla coscienza di tutto il Paese, e non basterà il richiamo alla ragion di Stato a cancellare e a far passare sotto silenzio quello che lì è avvenuto e continua ad avvenire. A meno che non si consideri di essere entrati pienamente in un’epoca nuova, in cui quella che Luc Boltanski chiamava la “sofferenza a distanza” in fondo non ci tocca. Ma la ragion di Stato, egregio Minniti, diventa così disumanità e sragione collettiva.