Di recente papa Bergoglio se n’è uscito con una frase – “il male ha i giorni contati” – che può sembrare una battuta di spirito e ha, invece, un alto contenuto teologico. La speranza per i primi cristiani era qualcosa di molto concreto: ci si aspettava, a breve, il ritorno di Cristo sulla terra che avrebbe finalmente inaugurato il regno di Dio. Sono trascorsi più di duemila anni e di questo, però, neanche l’ombra. Allora un buon pastore non può che ripetere: “Non disperate, ci siamo quasi”.
Purtroppo, com’è noto, il compromesso quotidiano con il male, che la Chiesa cattolica non ha mai cessato di sottoscrivere – sia adoperandosi per accrescerlo, con la sua ipocrisia, sia non battendosi a sufficienza per sconfiggerlo –, ha fatto sì che la “storia universale” (ammesso e non concesso che questo concetto abbia una sua validità) sia stata e sia ancora “il banco del macellaio”, come avrebbe detto Hegel, in cui le pagine della felicità sono pagine bianche. Lo vediamo intorno a noi: con le guerre, che giustamente Bergoglio denuncia come una sconfitta in ogni caso, con le torture, in particolare quelle a cui sono sottoposti i migranti, con la miseria in cui versa tuttora una parte non piccola del mondo. A questo riguardo, tanto per fare un po’ di polemica, vorremmo chiedere a Bergoglio se non si sia pentito, vedendo le immagini di deportati incatenati che scorrono sulle televisioni, di non avere dato un’indicazione di voto nelle ultime elezioni statunitensi, limitandosi a sostenere che il cattolico avrebbe comunque dovuto scegliere tra due mali, quello delle deportazioni dei migranti (Trump) e quello di una legislazione favorevole all’aborto (Harris).
No, caro Bergoglio: le due cose non sono sullo stesso piano. Una delle ragioni principali che ha dalla sua la speranza (a cui noi teniamo almeno quanto lei) è che essa, per avere delle chance, va commisurata alle situazioni. Una speranza che volesse presentarsi a tutto tondo, senza fare distinzioni, finirebbe nell’ipocrisia di cui sopra: con la scusa di voler essere a trecentosessanta gradi si vieterebbe, nelle scelte concrete, di stare da una parte o dall’altra.
Dunque – anche a essere contrari all’aborto e ad avere su questo una posizione in linea di principio intransigente – non si dovrebbe evitare di notare che, mentre la deportazione di donne e uomini viventi è un male immediato, quello dell’aborto ai danni di eventuali nascituri è piuttosto un male in prospettiva, diciamo così: nel senso che non è detto che una donna incinta, per il semplice fatto di potere abortire, debba per forza farlo. Appare, e appariva già al momento del voto negli Stati Uniti, molto più imminente l’altro male, quello di una deportazione sotto coercizione.
Con il rifiutarsi di stabilire una “scala” dei mali, diciamo così, a cui dovrebbe corrispondere una “scala” delle nostre speranze – e comportarsi così, poi, probabilmente per ragioni “politiche” dentro alla Chiesa, cioè per non mettersi in urto con i conservatori, soprattutto quelli interni al cattolicesimo statunitense –, si finisce col non avere più alcuna posizione di contrasto al male. Ci si astiene, cacciandosi in quella zona dell’inferno che tocca agli ignavi.
Per concludere questo discorsetto in materia teologica (che potrebbe sembrare presuntuoso, ma è mosso in fondo dal semplice buon senso), quello che noi sappiamo – da socialisti – è che non possiamo limitarci a denunciare il capitalismo, a est come a ovest, come il male di tutti i mali, quello che in sostanza, con la sua inveterata tendenza all’arricchimento di pochi e all’oppressione di molti, è il Male in sé. Nient’affatto: una ragione in primis politica ci insegna a modulare qualsiasi affermazione al riguardo. C’è sempre il “più” e il “meno”, o il “meglio” e il “peggio”, tra cui scegliere. Per fare degli esempi, un capitalismo temperato dalle leggi è meno peggio di uno selvaggio; una democrazia liberale, sia pure imperfetta, in cui sia possibile far valere almeno in parte i propri diritti, è meglio di una dittatura aperta; una giustizia penale internazionale, messa in condizione di giudicare chi si sia macchiato di delitti contro l’umanità e di crimini di guerra, è meglio per sconfiggere il male, sebbene non sia ancora sufficiente, della sua assenza. E così continuando… Anche una religione non sottoposta a calcoli di ordine interno, che si muova secondo quella necessaria gradazione della speranza che solo la rende possibile, sarebbe più auspicabile di un’altra che, fingendo di promuovere la speranza tout court, in realtà contribuisce ad affossarla.