Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, la regione del nord-est che confina con il Ruanda, è caduta il 26 gennaio, dopo pochi giorni di combattimento, e ora è nelle mani del Movimento 23 marzo (M23), uno dei tanti gruppi armati della regione. La rapida occupazione è stata possibile perché l’M23 è sostenuto, finanziato e protetto dal governo di Kigali. Un rapporto di esperti dell’Onu, nel luglio scorso, aveva chiaramente indicato che l’esercito ruandese controlla e dirige il gruppo armato. In questi giorni, del resto, l’esercito ruandese è direttamente al suo fianco con tremila o quattromila uomini.
I caschi blu della Monusco, il cui mandato è stato rinnovato nel dicembre scorso, e la forza regionale africana Sami-Drc, della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc), composta da soldati del Malawi, del Sudafrica e della Tanzania, sono stati incapaci di portare aiuto all’esercito congolese costretto al ritiro. La situazione della popolazione civile è tragica. Goma, che contava un milione di abitanti, ospita in questo momento un numero imprecisato di persone, molte delle quali vivevano accampate nei suoi dintorni (un altro milione circa); alcune sono fuggite, altre avevano cercato scampo nel capoluogo. Stando alle testimonianze delle organizzazioni umanitarie, il cui lavoro è stato fortemente ostacolato dai combattimenti, è difficile fare il bilancio delle vittime, destinato ad aggravarsi in mancanza dei beni essenziali, come acqua, cibo e medicinali. Siamo all’ennesima emergenza umanitaria nella regione.
L’appello del segretario dell’Onu a una tregua è rimasto inascoltato, anzi l’M23 ha iniziato, da ieri, a spostarsi verso il Sud-Kivu puntando al capoluogo Bukavu ed è prossimo al suo aeroporto. L’M23 aveva già occupato Goma nel 2012, per poi abbandonarla dopo che l’allora presidente statunitense, Barack Obama, aveva esercitato una decisa pressione sul governo di Kigali. Dal novembre 2021, l’M23 aveva però rilanciato l’offensiva, anche per il perenne stato di debolezza dell’apparato statale del Paese. Con l’attuale avanzata, l’M23 potrebbe prendere il controllo di un’area mai così vasta fino a oggi. Intanto, ha lasciato dietro di sé ogni tipo di violenza, uccisioni, massacri e stupri contro la popolazione civile.
L’esercito burundese sta cercando di portare un supporto all’esercito congolese, col rischio di elevare ancora di più l’internazionalizzazione del conflitto. Quello in corso, infatti, non è un conflitto interno a una regione, ma è una guerra internazionale. Tutti i tentativi di mediazione sono finora falliti: un incontro tra il dittatore del Ruanda, Paul Kagame, e il presidente congolese, Félix Tshisekedi, si è rivelato finora impossibile. A dicembre, Kagame non si era presentato al tavolo di mediazione dell’Angola, perché chiede che vi si sieda anche l’M23.
Storicamente, il punto di svolta nella regione fu, nel 1994, il genocidio in Ruanda, che coinvolse non solo la popolazione tutsi ma anche hutu. L’esodo delle popolazioni ha fatto del Kivu il fulcro di tensioni e di conflitti regionali. Le guerre che si sono succedute hanno destabilizzato l’intero Paese, con il moltiplicarsi di decine di gruppi armati ribelli, con l’intervento degli eserciti degli Stati confinanti, e con l’interesse delle multinazionali e di diversi attori occidentali, Francia, Usa, Israele, e anche la Cina, attratti dalle enormi ricchezze della regione. Perché quella in corso nel Kivu è soprattutto una guerra per il controllo delle risorse naturali. Non sorprende, allora, che, mentre l’esercito ruandese e i suoi alleati prendevano il controllo di Goma, nella capitale congolese, i manifestanti abbiano preso d’assalto alcune ambasciate, tra cui quelle del Ruanda, della Francia, del Belgio, degli Stati Uniti, del Kenya e dell’Uganda, perché appoggiano i ribelli o non fanno niente per fermarli.
L’intervento diretto del Ruanda si è sempre coperto dietro la necessità di difendersi dagli hutu rifugiati nell’est del Congo e, secondo la narrazione ufficiale, unici responsabili del genocidio in Ruanda. Quello che colpisce di più, oggi, è che dietro questo Paese ci siano gli Stati Uniti e l’Unione europea. Il Ruanda vuole giocare il ruolo di partner strategico nell’Africa centro-meridionale: un compito apparentemente al di sopra delle sue forze, poiché il Ruanda è un piccolo Paese, con una superficie pari a meno di un decimo di quella dell’Italia, e una popolazione complessiva uguale a quella della sola capitale congolese, Kinshasa; inoltre è povero di risorse naturali. Si spiega così che, per accreditarsi in questa funzione, il Ruanda, già intensamente popolato, avesse firmato l’accordo per accogliere i rifugiati che Londra voleva cacciare, poi definitivamente abbandonato dopo la vittoria dei laburisti in Gran Bretagna, lo scorso luglio.
Il 19 febbraio 2024, Kigali e Ursula von der Leyen per conto della Commissione europea, hanno firmato un protocollo d’accordo sui minerali strategici, mentre il Ruanda già appoggiava l’offensiva dell’M23 verso Goma. Il fatto è che il Ruanda, non avendo nel proprio sottosuolo tali minerali, li prende, e in abbondanza, nella regione congolese del Kivu. Il Ruanda è in sostanza uno Stato contrabbandiere, perché, attraverso i gruppi armati che sostiene, si appropria dei minerali rari che sono nel sottosuolo del Congo, in primo luogo il coltan (70% dell’estrazione mondiale), fondamentale per le batterie delle nuove apparecchiature tecnologiche come gli smartphone. L’Unione europea ha bellamente ignorato le denunce della società civile e del governo del Congo. L’estrazione del coltan e di altri minerali avviene in modo spesso informale, con lo sfruttamento dei lavoratori, compresi i minori, col commercio illegale controllato da gruppi armati. La rapina delle materie prime congolesi è attestata, fra l’altro, da documenti ufficiali dell’Onu. Se oggi il Ruanda continua l’offensiva nel Kivu, è perché sa di essere ben sostenuto dall’Unione europea.