Che l’“ultimo dittatore d’Europa”, come viene chiamato il bielorusso Aleksandr Lukashenko, si affermasse ancora una volta alle presidenziali dell’ex repubblica sovietica, non c’erano dubbi. Con oltre l’87% dei consensi, in una competizione priva di avversari politici – erano solo quattro e tutti innocui –, l’uomo che avversò nel 1991 lo scioglimento dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, si è garantito il settimo mandato consecutivo. Considerando lo scenario geopolitico, ben lontano da una pacificazione tra l’Occidente e la Russia, alleatissima di Minsk, gli oppositori dell’autocrate dovranno aspettare parecchio prima di poter intravedere almeno un’apertura del regime.
Si tratta di uno scenario decisamente peggiore di quello georgiano o moldavo (vedi qui e qui) dove, sia pure tra dubbi e tentativi di svolte autoritarie, elezioni più credibili di quelle bielorusse ci sono state, mostrando Paesi spaccati in due, con una parte della società vicina alla Russia e un’altra all’Europa. Ma in questi oltre trent’anni di indipendenza, com’è andata cambiando la Bielorussia, e soprattutto com’è maturata l’esigenza di una svolta democratica in un Paese che la democrazia non l’aveva mai conosciuta?
Fin da subito, ovvero dopo la proclamazione dell’indipendenza, il 25 agosto 1991, e l’adesione nel 1992 al trattato di non proliferazione nucleare, cominciarono i contrasti all’interno del Paese sull’assetto istituzionale. Alla fine, prevalse l’attuale capo dello Stato, e con lui la scelta di una repubblica presidenziale di stampo potenzialmente autoritario. All’indomani della promulgazione della nuova Costituzione, nel 1994, Lukashenko, appena quarantenne e con una scarsa esperienza politica, fu eletto per la prima volta al secondo turno con l’80% dei consensi, mentre al primo aveva conseguito il 44,82%, sconfiggendo l’ex politico e ingegnere sovietico Vjačaslaŭ Kebič.
Difficile sapere se questa prima competizione elettorale si sia svolta correttamente, ma in molti giustificarono il suo successo con le promesse relative alla lotta contro la corruzione e per la sua opposizione alle privatizzazioni, in quel momento in corso in tutti i Paesi di quell’area geografica, con gravi ripercussioni sulle condizioni di vita delle popolazioni. Insomma, la Bielorussia – in contrasto con le indicazioni del Fondo monetario internazionale – aveva preso una strada diversa da quella dominante. Un elemento non secondario nella contrapposizione tra l’ex repubblica sovietica e l’Occidente. Anzi, secondo alcuni osservatori, per questo suo non allineamento alle politiche economiche che si stavano affermando, Lukashenko non è mai stato ben visto dall’Occidente, che ha trovato lungo la sua strada un avversario della shock therapy che ridusse in condizioni di semi-povertà i cittadini ex sovietici.
A queste scelte economiche, che potremmo definire antiliberiste, si affiancò uno spostamento verso la Russia e un conseguente allontanamento da Bruxelles. Ciò rese l’opinione pubblica e le istituzioni internazionali diffidenti nei confronti dei risultati elettorali delle legislative del 2000 e delle presidenziali del 2001, inficiati, secondo le istituzioni occidentali, da brogli e intimidazioni. Stessa musica tre anni dopo. Al voto il leader bielorusso si affermò con oltre l’80% dei consensi, la stessa percentuale – 88,9% – con la quale vinse il referendum che mutò la Costituzione per garantirgli una nuova partecipazione al voto e la rielezione, essendo la vittoria data per scontata.
Le proteste dell’opposizione – rappresentata inizialmente alle elezioni da piccole formazioni di centrosinistra sostituite, come vedremo, da personaggi provenienti da ambienti non legati direttamente alla politica – vennero messe a tacere attraverso arresti e intimidazioni che provocarono la condanna del Consiglio d’Europa. Anche le presidenziali del 2006 e del 2010 furono giudicate dall’Occidente allo stesso modo. L’anno successivo nel Paese scoppiò una grave crisi economica, le cui cause sarebbero da ricondurre all’eccessivo accentramento dell’economia da parte dello Stato, con un conseguente aumento dell’inflazione che toccò la cifra record del 108,7%.
Nello stesso anno, Minsk venne colpita da un attentato che provocò quindici morti e 204 feriti, sulla cui matrice non è mai stata fatta chiarezza, anche se due giovani presunti responsabili furono individuati e condannati a morte. Le elezioni parlamentari del 2008 e del 2012 videro assegnati tutti i seggi del parlamento a esponenti del partito di governo. E ancora, nel 2015, nuova vittoria alle presidenziali, dove il presidente si affermò con l’83,4% dei consensi. Ci furono dei cambiamenti nel settembre 2016, quando, per la prima volta alle consultazioni elettorali, l’opposizione portò in parlamento due oppositori dopo vent’anni di assenza.
Ma già nel 2019, tutti i 110 seggi della Camera bassa furono ancora assegnati a deputati legati al presidente. Le elezioni presidenziali del 2020 ebbero lo stesso risultato – 80,2% –, ma in questo caso la rivolta, cominciata il 24 maggio di quell’anno, fu notevole, coincidendo con quella contro la decisione dell’esecutivo di non prendere le misure necessarie nei confronti della pandemia. Gli arresti di Viktar Babaryka, noto banchiere bielorusso fin dal 1995, e del blogger Sjarhej Cichanoŭskij, che prima della misura repressiva aveva deciso di presentarsi alla competizione elettorale, resero il clima incandescente. A prendere il posto di Cichanoŭskij, la moglie Svjatlana Heorhieŭna Pilipčuk, traduttrice e interprete, due volte candidata al Nobel per la pace. Entrambi gli oppositori furono considerati da Amnesty International prigionieri di coscienza. Questi arresti si accompagnarono a misure repressive senza precedenti. Nel corso degli scontri con la polizia, morirono cinque manifestanti, altre centinaia rimasero feriti, ci furono cinquanta scomparsi e 450 persone sarebbero state sottoposte a torture, mentre altri dodicimila sarebbero stati arrestati. I casi furono denunciati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani di abusi sessuali e stupri.
Lo scoppio della guerra tra la Russia e l’Ucraina, con lo scontato sostegno di Minsk a Mosca, non ha fatto altro che peggiorare i rapporti tra l’Europa e la Bielorussia, il cui governo ha approvato ulteriori misure, con un referendum vinto con il 65% dei consensi, che restringono ancora di più i già limitatissimi spazi dell’opposizione, rafforzando la leadership del Paese e abolendo l’obbligo di rimanere zona denuclearizzata. In seguito alla decisione di schierarsi con Putin, il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha sospeso il diritto della Bielorussia a prendere parte a riunioni dell’organizzazione. Non poteva mancare, all’interno di un regime autoritario, il totale controllo dell’informazione. Al riguardo, nel 2021, veniva approvata una legge che ampliava “l’elenco delle informazioni, la cui diffusione da parte dei media e delle risorse Internet è vietata”, come i sondaggi di opinione pubblica relativi alla situazione sociopolitica, condotti senza il necessario accreditamento, o i collegamenti ipertestuali a materiali contenenti “informazioni vietate”. A questo va aggiunto il diritto del procuratore generale, dei pubblici ministeri delle regioni e della città di Minsk, “di limitare l’accesso alle risorse Internet e ai media online che diffondono le informazioni per promuovere attività estremiste”.
Non se la passano meglio i lavoratori, che vedono negato il diritto di sciopero e di rappresentanza tramite organizzazione sindacale, condizione resa più problematica dai contratti a tempo determinato con cui è inquadrata la maggior parte degli impiegati. La libertà religiosa, che sarebbe garantita dalla Costituzione, è di fatto limitata a vantaggio di un rapporto privilegiato tra lo Stato e la Chiesa ortodossa bielorussa. A soffrire, anche le minoranze etniche, come i polacchi e i rom considerati cittadini di serie B. Come dicevamo, il quadro che abbiamo di fronte non lascia intravedere cambiamenti di sorta – a meno che non si arrivi, nel corso del 2025, a una fine del conflitto russo-ucraino e all’inizio di una fase distensiva tra le due Europe. Ma il percorso, ammesso e non concesso che inizi, è lungo.