Quel mai più – nella Giornata della memoria del primo quarto di questo secolo – non può che obbligarci a guardarci intorno e ad ascoltare. Vediamo ovunque violenze e distruzioni senza misura; ascoltiamo grida di dolore delle vittime, di troppe vittime. Allora è giusto chiedersi: che cosa ne abbiamo fatto di quel monito? In primo luogo, una memoria selettiva. La legge che istituisce per il 27 gennaio la Giornata della memoria parla non solo della Shoah, ma anche delle leggi razziali, della persecuzione italiana degli ebrei, degli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte. Parla insomma degli stermini di massa della Seconda guerra mondiale: se il filo conduttore è il mai più, perché ricordare solo l’immane tragedia dello sterminio degli ebrei?
In positivo, poi, riguarda tutti coloro che si sono opposti allo sterminio, anche loro vanno ricordati. In Italia, abbiamo avuto un numero imprecisato di soldati italiani, oltre settecentomila, fatti prigionieri e deportati. Di questi, 600-650mila rifiutarono di piegarsi; preferirono i campi di concentramento al ricatto di mettersi al fianco dei nazisti o della Repubblica sociale fascista: sono gli Internati militari italiani. Nell’immediato dopoguerra, diversi milioni di persone (padri, madri, sorelle, fratelli, figlie, figli – chi scrive è uno di loro) hanno conosciuto la tragedia di un loro caro nei campi di concentramento nazisti. Eppure si fa fatica a ricordare, anzi non si ricorda affatto, in Italia non si è mai voluto ricordare, mentre anche noi – figlie e figli – ce ne stiamo andando.
Si dirà: ma non c’è paragone con la Shoah! Certo, non c’è paragone. Quanto a condizioni di vita, come scrive Primo Levi, “i prigionieri italiani non stavano meglio di noi; è vero che nei loro campi non c’erano le camere a gas con i crematori e questo è un particolare molto importante, ma nei primi tempi le condizioni ambientali e di vestiario non erano molto diverse dalle nostre”. I soldati italiani potevano almeno scegliere, le persone di religione ebraica no, qualunque fosse la loro origine. Ma quei dolori, appena accennati nelle nostre famiglie, ci hanno vaccinati contro il virus dell’antisemitismo – e così, c’è da sperare, per la gran parte di noi anche contro la guerra e la violazione dei diritti fondamentali da qualunque parte commessa, da chicchessia, di qualsiasi religione. Non c’è testo sacro che possa giustificare i crimini. I fondamentalismi, tutti, vanno respinti.
Per questo addolora leggere sul “Corriere della sera” di ieri la seguente affermazione di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche: “Noi ci battiamo perché il 27 gennaio sia il Giorno della memoria solo della Shoah: non per non voler condividere altri dolori, ma perché, se si parla di tutto in uno stesso giorno, non si affronta e soprattutto non si comprende nulla”. Ho sempre pensato – e continuo a pensarlo, perché nella mia mente tutti questi fatti sono inscindibili – che le dittature, la guerra nazifascista, le leggi razziali, i genocidi, le deportazioni, la negazione della dignità della persona non siano comprensibili se non in un quadro unitario, che più avanti mi ha fatto conoscere il contemporaneo genocidio dei rom e dei sinti, il Porrajmos e la “medicina” disumana, il Programma eutanasia e Aktion T4 per eliminare le persone con disabilità.
Tutti i genocidi, tutti i crimini contro l’umanità sono unici, nel senso che sono uno diverso dall’altro, come sono unici tutti i delitti o tutti i femminicidi – ma ogni tipo di crimine ha radici comuni, e si può combatterlo solo andando a queste radici, altrimenti sarebbe impossibile prevenirli. Anche il razzismo si manifesta sotto forme diverse, ma sarebbe illusorio sconfiggerlo combattendone una sola forma, l’antisemitismo per esempio, senza combattere tutte le altre. Perché ormai non si tratta più, o non dovrebbe trattarsi più, di condannare soltanto ma di prevenire. Molte persone considerano la Shoah come un atto “unico”, il che significherebbe considerarla irripetibile. Ne siamo veramente sicuri? Possiamo dormire sonni tranquilli? Se guardiamo ai genocidi commessi prima e dopo la Shoah, non c’è da esserne convinti. Certo, sei milioni di morti sono un’enormità ineguagliata, considerato il breve lasso di tempo in cui è avvenuta; ma c’è un Paese in guerra continua da quasi sessantacinque anni, la Repubblica democratica del Congo, che a quella cifra ci sta arrivando, nell’indifferenza del mondo ma con precise responsabilità, proprio come fu per la Shoah.
Non si può esprimere che stupore per l’inaudita rimozione della Shoah proprio da parte dei dirigenti israeliani e di una parte delle comunità ebraiche. Se oggi possiamo criticare i vari governi genocidari, le violazioni gravi dei diritti fondamentali, i crimini contro l’umanità, il ripudio della dignità della persona, questo lo dobbiamo in primo luogo e soprattutto alle tragiche vicende del popolo ebraico, e alla Shoah in particolare. E se oggi, oltre che Hamas e tutti gli altri terrorismi vicini e lontani, possiamo criticare anche l’attuale governo israeliano, questo è possibile soltanto perché c’è stata quella tragedia . È la memoria della Shoah che ci permette di essere intransigenti contro il governo israeliano; ed è per questa memoria che lo sono anche persone di religione ebraica nel mondo.
La memoria corta, o se preferite a fette, ha già prodotto i suoi guasti. Il primo trattato internazionale per la difesa dei diritti umani, dopo la fine della guerra, è la Convenzione sulla prevenzione e la repressione del genocidio (1948), ispirata dalla tragedia della Shoah. Oggi proprio lo Stato di Israele – il suo governo, non i suoi abitanti di qualunque fede siano – è accusato dalla Corte internazionale di giustizia di pratiche genocidarie nei confronti della popolazione palestinese di Gaza, e sarebbe stato invitato a non farlo. La raccomandazione però è stata ignorata, senza che questo abbia portato i governi che riforniscono Israele di armi a sospendere le loro forniture, o comunque il loro appoggio all’azione genocidaria del governo.
La frana del concetto stesso del diritto è in fase avanzata, in Italia e altrove. I capi di Hamas e il premier israeliano sono soggetti, da quasi un anno, a un mandato di arresto per crimini contro l’umanità da parte della Corte penale internazionale. Non si possono condannare le atrocità degli uni senza condannare quelle dell’altro. Come altri governi, quello italiano ha assicurato che l’arresto di Netanyahu non ci sarà, in violazione del trattato istitutivo della Corte, che pure ha sottoscritto. La settimana scorsa questo stesso governo ha riaccompagnato in patria, con un volo di Stato, un noto torturatore libico, interrompendo le procedure per il suo arresto ordinato dalla Corte penale internazionale.
Mentre Trump vuole ridisegnare i confini statunitensi sul mappamondo, e forse non solo quelli, possiamo davvero dormire sonni tranquilli? Quel mai più è diventato un sempre di più. Milioni di morti – “a pezzetti”, direbbe papa Francesco – si ripetono per terra e per mare. Perché allora non si potrebbe ripetere la Shoah in forme diverse? Può salvarci la nostra memoria corta, la nostra indifferenza selettiva a seconda delle convenienze? Ma la Shoah non era partita anche proprio da lì, da quell’indifferenza?