“Sì a un vero Stato federale sul modello degli Stati federali collaudati e funzionanti. No a una confederazione di Stati indipendenti”: non è un proclama lanciato dal palco della tradizionale kermesse leghista di Pontida. Certo, rileggere oggi, a un quarto di secolo di distanza, i toni e i contenuti delle dichiarazioni dei massimi esponenti del centrosinistra italiano (questa è dell’allora ministro Franco Bassanini) può essere una esperienza straniante. Ma è impossibile capire quello che è successo attorno alla vicenda dell’autonomia regionale differenziata senza ricordare da dove tutto ha avuto origine, perché è stata la Corte costituzionale, nel comunicato col quale ha annunciato l’inammissibilità del referendum abrogativo della legge Calderoli, a riportare tutti noi, piuttosto bruscamente, al biennio 2000-2001. All’epoca, il discorso pubblico era dominato dalla parola d’ordine oggi quasi dimenticata del federalismo; e il braccio di ferro fra i due principali schieramenti politici in campo era tutto giocato sulla rivendicazione di quale fosse quello “autentico”.
Il presidente della Repubblica del tempo, Carlo Azeglio Ciampi, paladino del tricolore e dell’amore per l’inno nazionale, parlava senza mezzi termini di una evoluzione che doveva portare a “uno Stato nuovo, sempre più strutturato come uno Stato federale che per questo non cesserà di essere saldamente unitario”. Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Vasco Errani, ammoniva i critici: “E smettiamola di chiamarla ‘riformetta’ o ‘riformina’. Capisco che ci sono le elezioni politiche alle porte ma di fronte al federalismo dobbiamo andare oltre”. “I tanti che fanno chiacchiere – tuonava il presidente del Consiglio, Massimo D’Alema (ma al momento dell’approvazione della riforma il capo del governo era il suo successore, Giuliano Amato) – potrebbero cercare di portare avanti questo provvedimento, in modo che in questa legislatura ci possa essere anche la riforma costituzionale del federalismo”.
Lo stesso D’Alema, che pure aveva sostenuto che il federalismo fosse un modo “per unire gli italiani e non per dividere”, a distanza di anni, ha poi disconosciuto l’iniziativa, attribuendone la paternità appunto ad Amato (che però era stato il suo ministro per le Riforme istituzionali prima di ereditarne la poltrona a palazzo Chigi), e sostenendo che la scelta di isolare quella singola parte del progetto di riforma costituzionale, che affondava le sue le radici nei lavori della sua Bicamerale per le riforme, lo avesse lasciato “perplesso”. Non sarebbe giusto, comunque, chiudere questo tuffo nel passato trascurando le illuminanti parole dell’allora presidente della Camera, Luciano Violante, che nell’estate del 2000 spiegò ai cronisti che “quando riprenderà in aula la discussione sul federalismo occorrerà fare una riflessione sugli strumenti costituzionali per rendere forte il governo centrale”. Federalismo e contemporaneo rafforzamento del governo centrale: a qualcuno potrebbe venire in mente il patto sottoscritto in questa legislatura fra Lega e Fratelli d’Italia sul cammino parallelo di autonomia regionale e premierato, ma ciascuno di noi può apprezzare liberamente coincidenze e differenze di posizioni, culture politiche, voti in parlamento.
L’autonomia differenziata è prevista in Costituzione, “fatevene una ragione”. Chi ha seguito il cammino parlamentare della “secessione dei ricchi” questo refrain lo ha sentito ripetere mille volte dagli esponenti delle destre. Colpisce maggiormente, ma non deve sorprendere più di tanto, ritrovarlo di fatto, nero su bianco, nel comunicato stampa della Corte costituzionale sulla bocciatura del referendum che – spiegano i giudici delle leggi – “verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata come tale, e in definitiva sull’art. 116, terzo comma, della Costituzione; il che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale”. Qualche promotore del referendum cassato dalla Corte costituzionale parla di decisione “cerchiobottista”, in sostanza accusando i giudici di non aver voluto esagerare nello scontentare il governo Meloni. Eppure si tratta dello stesso collegio che ha recentemente azzoppato (vedi qui le nostre considerazioni a caldo) la riforma di marca leghista, cancellandone gli aspetti più marcatamente incostituzionali.
Cosa succederà ora? Di sicuro i massimi sostenitori dell’autonomia differenziata – i leghisti come il ministro Roberto Calderoli e il presidente del Veneto, Luca Zaia – temevano la consultazione popolare e avevano lanciato reiterati allarmi sui rischi che il referendum avrebbe comportato per l’unità nazionale (addirittura): “terzogiornale” ne aveva parlato qui. Non a caso, il ministro oggi festeggia la possibilità di “lavorare in pace senza avvoltoi che mi girano sulla testa”, mentre per il suo collega di partito ora “è necessario premere il piede sull’acceleratore”, anche se attraverso un “dialogo costruttivo”. Più che con gli oppositori del provvedimento, viene fatto di pensare, con gli alleati di governo che potrebbero avere qualche problema con gli elettori del Sud.
L’autonomia differenziata non è morta, come sostengono i più ottimisti fra i commentatori di centrosinistra: ma dovrà fare il nuovo passaggio parlamentare reso necessario per soddisfare le indicazioni della Consulta. Per la Lega è un obiettivo prioritario da portare a casa almeno sul piano simbolico, anche senza la forza devastante del testo completo approvato dal parlamento e largamente censurato dalla Corte; per gli alleati la priorità è non perdere l’unità della coalizione che deve completare il percorso delle altre riforme sulla giustizia e sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. Le tensioni non mancheranno (proprio Forza Italia promette di vigilare per evitare che alcune regioni siano “penalizzate” dall’applicazione della legge), ma al momento una crisi vera della coalizione di destra-centro su questo tema appare ancora piuttosto improbabile.