Una volta era un termine tecnico, da manuale di sociologia. Si insegnava agli studenti che altrove, in Paesi lontani, esistevano i working poors, poveracci che, pur lavorando con un lavoro regolare, non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena, ed erano quindi obbligati a fare più lavori se volevano sbarcare il lunario. Si facevano gli esempi di New York e di altre grandi città americane. Oggi è una realtà anche da noi. E la quota del lavoro povero rimanda a oltre il 10% degli occupati. La povertà è il risultato del combinarsi dei bassi salari e della precarizzazione del lavoro, del part time involontario, dei contratti intermittenti. E L’Istat ricorda che chi ha contratti a tempo determinato guadagna circa un terzo in meno di chi ha contratti a tempo indeterminato. I numeri parlano di una crescita impressionante del lavoro povero negli ultimi anni, di pari passo con l’aumento di una povertà materiale, che tra povertà relativa e povertà assoluta stringe nella sua morsa un quarto del Paese, oltre quindici milioni di persone.
Un impoverimento del lavoro che coinvolge anche aspetti simbolici, non solo materiali: dilegua l’orgoglio del mestiere, si afflosciano le identità costruite intorno alla condizione lavorativa, si smarriscono conoscenze tecniche e competenze che richiedevano tempo e continuità per essere accumulate. Così il lavoro povero impoverisce materialmente e culturalmente il Paese, con una sorta di regressione antropologica che rinvia a un passato troppo presto dimenticato, quello di un’Italia misera di bracciantato e caporalato, di lavoro minorile, di cottimo in fabbrica e di bieco sfruttamento della manodopera. Un passato che torna di attualità, nell’epoca in cui si acuiscono le disuguaglianze sociali, e in cui l’uno per cento della popolazione italiana possiede un quarto della ricchezza complessiva.
Dove risiedono le radici di questa involuzione? Da tempo l’Italia non è più un Paese industriale: da mezzo secolo, con la fine della grande industria, l’occupazione si è spostata verso piccole e medie aziende. È cominciato con le politiche di decentramento produttivo e di “esternalizzazione” messe in atto dalle industrie, fin dagli anni Settanta, sia per alleggerire i costi, sia come risposta alla conflittualità operaia che aveva caratterizzato quel decennio; poi è venuta l’epoca dei distretti industriali, la cosiddetta “terza Italia”, tra gli Ottana e i Novanta. Di qui, negli anni seguenti, il proliferare di una micro-imprenditoria spesso senza garanzie dal punto di vista occupazionale e della sicurezza, mentre aree un tempo produttive venivano attraversate da processi diffusi di deindustrializzazione e di abbandono.
Oggi, ormai, l’economia è dominata dal settore terziario, al cui interno vi sono comparti molto avanzati sul terreno tecnologico, ma anche numerosi settori “arretrati” sul piano professionale. Si aggiunga, inoltre, l’aumento notevole, registrato tra gli anni Novanta e i primi Duemila, della presenza degli immigrati tra la forza lavoro, componente le cui retribuzioni sono schiacciate verso il basso, non solo per motivi di discriminazione, o per i frequenti ricatti relativi alle condizioni di soggiorno e alla mancata concessione della cittadinanza, ma anche perché molti migranti svolgono prevalentemente mansioni dequalificate.
Altra questione strutturale resta il gender pay gap, vale a dire la differenza retributiva tra lavoratrici e lavoratori, dovuta non solo a motivi storico-culturali ma anche alla larga diffusione del part time involontario tra le donne e alle interruzioni che possono verificarsi durante la loro carriera, soprattutto per la maternità e gli impegni di cura. Ma, oltre che donna, il precariato è anche e soprattutto giovanile: i giovani sono presi nella rete della flessibilità nel mercato del lavoro, con la trappola dei primi contratti “atipici”, a tempo parziale, a tempo determinato, di formazione-lavoro, in teoria giustificati dai datori di lavoro con la necessità di gestire le continue fibrillazioni dei mercati, poi in realtà utilizzati in maniera indiscriminata, con l’obiettivo dell’abbattimento – a qualunque prezzo – del costo del lavoro.
A partire dal 1992, con il “pacchetto Treu”, c’è stato un continuo sprofondare, passando per la legge Fornero del 2012 fino all’esecrato Jobs Act (prossimamente oggetto di un referendum abrogativo). Al posto della propagandata flexicurity, che doveva essere la garanzia di poter passare senza troppe sofferenze da un lavoro all’altro, si è così affermata una dilagante precarietà e una miseria giovanile senza precedenti. Una condizione lavorativa priva di diritti, anche elementari, quale quello che menziona un articolo sempre meno citato della Costituzione, il diritto a una retribuzione “sufficiente da assicurare […] un’esistenza libera e dignitosa”. E questo termine “dignità” torna frequentemente nel mormorio che emerge dal mondo giovanile, come modesta rivendicazione di un universo di sicurezze, che nella pratica è costantemente negato. Se ne sono resi conto, qualche anno fa i 5 Stelle, che avevano inserito il termine nel loro lessico. Non c’è da meravigliarsi se i più qualificati scappano all’estero, al ritmo di oltre centomila l’anno (nel 2022-23). Una ricchezza culturale creata con il denaro pubblico che regaliamo ad altri, dato che pochi, meno di un terzo, tornano: su 550.000 emigrati, tra il 2010 e il 2023, ne sono rientrati circa 170.000.
Il peggio è che, date queste condizioni “strutturali” di fondo e il sostanziale immobilismo dei governi, la situazione non è destinata a cambiare in tempi brevi, soprattutto se si considera che la maggior parte delle persone in povertà presenta una situazione multiproblematica: a fragilità e disagio economico, si accompagnano, per esempio, condizioni di debolezza sul mercato del lavoro, precarie condizioni abitative e titoli di studio medio-bassi. Un combinato disposto molto difficile da rompere e che, al contrario, si auto-rafforza, cronicizzando, per queste persone, una condizione di svantaggio sociale. Già si profilano, secondo alcuni studi sociologici, le “catene intergenerazionali” della povertà, quelle condizioni per cui la povertà viene trasferita ai figli e alle generazioni successive.
Mostra efficacemente queste tendenze un recente lavoro collettivo di ricerca su Genova (pubblicizzato sulla testata di “terzogiornale”), da cui abbiamo tratto alcune delle riflessioni precedenti; ma se dalla derelitta Liguria si passa alla più ricca Emilia-Romagna, anche qui il panorama non è rassicurante. Secondo uno studio dell’Osservatorio dell’Istituto di ricerca economica e sociale di Bologna, l’emergenza salari è ormai di casa anche in un territorio considerato la locomotiva d’Italia. Nel 2023, infatti, già il 6,8% delle famiglie viveva in condizioni di povertà relativa, ovvero con un reddito inferiore alla soglia dei 1.211 euro mensili, contro il 10,6% a livello nazionale. Certo, l’Emilia-Romagna continua a essere una delle regioni italiane con maggiore benessere e minori diseguaglianze – ma anche qui il quadro sta progressivamente mutando. Come porre rimedio? Interventi possibili esistono: vanno da una legislazione che torni a tutelare il lavoro all’introduzione di misure come il salario minimo per frenare la corsa al ribasso delle retribuzioni, per non parlare di un rafforzamento del welfare e degli ammortizzatori sociali. Ma anche queste misure di riformismo minimo suonano come proposte audacissime nell’inverno politico che paralizza il Paese.