Con un’intervista a effetto, il ministro leghista dell’Istruzione ha presentato alcuni punti delle linee didattiche che dovrebbero trasformare alla radice alcuni insegnamenti nelle nostre scuole dal 2026-2027. Seguiamo solitamente con apprensione le intenzioni riformatrici di quanti si succedono al ministero dell’Istruzione. Da Luigi Berlinguer in avanti, è diventata abitudine lasciare il segno del proprio passaggio con una “riforma”, e l’effetto di tanto lavoro terapeutico da parte dei medici ha finito per stressare l’ammalata più della malattia stessa. La scuola è un cantiere sempre aperto, per revisione di programmi e riorganizzazione delle strutture.
Nell’assenza di una coerente progettualità, è difficile capire il senso di continui interventi che sembrano costantemente spostare l’obiettivo, costringendo a virare ogni volta in una direzione diversa. Manca una coscienza, un’idea di lungo periodo. Il tempo per sedimentare e comprendere i cambiamenti. Assistiamo, da tutte le parti, alla ricerca spasmodica del nuovo, dell’innovazione del secolo.
Riflettiamo su alcune questioni presenti nell’intervista (rilasciata al “Giornale”). Una cosa sono gli annunci, altra i dispositivi. Ricordiamo che il ministro, parlando di maggiore rigore, annunciò il 5 in condotta con la conseguente bocciatura. Ma forse gli era sfuggito che funziona già così. Fra le varie novità, oltre allo studio della Bibbia e allo studio a memoria, nell’intervista si dice: “Pensiamo di reintrodurre opzionalmente elementi di latino già dalle medie, dalla seconda per la precisione, per numerose ragioni: apriamo le porte a un vasto patrimonio di civiltà e tradizioni; poi rafforziamo la consapevolezza della relazione che lega la lingua italiana a quella latina. E poi c’è il tema, importantissimo, dell’eredità”.
Il latino alle medie: i classicisti sono contenti e noi con loro. Ma se il latino è obbligatorio per tutti, è una cosa. Se è opzionale, questo significa semplicemente che la 1A e la 1B saranno popolate dalla Firenze bene, dalla Roma bene, dalla Napoli bene e così via. Gli altri si auto-selezioneranno nella 1C e seguenti. Si intravede, in lontananza, una selezione sociale. L’ennesima trovata per mettere su classette di salvati e classacce di sommersi?
Viene da chiedersi, inoltre, se dopo decenni di abbandono del liceo classico e dei conseguenti corsi universitari, qualcuno abbia controllato se ancora ci sono insegnanti per la lingua di Catullo e di Virgilio. Buttato così, quasi per casuale estrazione, dà l’impressione che nella testa del ministro lo studio del latino sia un simpatico ritorno al passato: come il Carosello, il ripristino della leva militare, la riapertura delle case chiuse.
E ancora: “Aboliamo la geostoria. La storia diventa la scienza degli uomini nel tempo. L’idea è di sviluppare questa disciplina come una grande narrazione, senza caricarla di sovrastrutture ideologiche, privilegiando inoltre la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente”. Ma non è proprio questa la più “ideologica” delle scelte?
Di fronte a un mondo in tumulto, e in straordinaria trasformazione, in cui non si comprende nulla di ciò che succede senza tenere presente ciò che accade ed è accaduto nel mondo intero, in tutti e cinque i continenti a partire dalla storia delle tante migrazioni e dei tanti colonialismi, la scuola di Valditara cerca le sue radici nella centralità dell’idea di “italianità”, sulla scia del Liceo made in Italy, per esempio, idea talmente fuori dal mondo che non vi si è iscritto quasi nessuno. In pratica, torniamo indietro alla riforma Gentile, dove tutto a scuola deve parlare di Roma. Obbligatorio, per gli alunni, imparare a memoria il nome dei sette colli e dei sette re, le date di tutte le guerre mosse da Roma all’universo mondo, e via avanti fino al “maggio radioso”, la canzone del Piave, e poi immaginiamo, per concludere, anche la marcia su Roma.
Tutto ciò sembra straordinariamente privo di fondamento culturale. Una bella lettura, da cui si potrebbero prendere spunti interessanti, è il testo dell’antropologo Marco Aime, Una bella differenza (Einaudi). L’autore spiega la bellezza delle differenze che caratterizzano il genere umano, e parla dell’importanza delle culture come incontri, scambi, relazioni, contaminazioni e connessioni. Ricorda che il lenzuolo è di cotone, e che il cotone è una pianta originaria dell’India. Che la lana viene dalla pecora, addomesticata per la prima volta nel Medio Oriente, più di diecimila anni fa. Che le ciabatte sono state inventate dagli indiani dell’America del Nord. Che il pigiama è un indumento originario dell’India antica. Il caffè nasce da una pianta originaria dell’Abissinia, mentre il tè viene dalla Cina. Lo zucchero venne estratto per la prima volta in India, il cacao, da cui deriva il cioccolato, proviene dal Messico e il cucchiaino è fatto di acciaio, un materiale anch’esso lavorato per la prima volta in India. La pizza proviene dal mondo arabo, mentre gli spaghetti sono stati inventati anticamente in Cina. In tutta la sua lunga storia, l’uomo ha sempre viaggiato e, viaggiando, imparato a conoscere oggetti e idee nuove in uno scambio continuo. Spiegare che ogni epoca ha la propria storia significa fare storia.
Il mondo è complesso e multiculturale, e non c’è cosa migliore che educare e porre le basi per una concreta e consapevole amicizia universale, che gli attuali governanti dalle radici cristiane (?) sembrano dimenticare, o volere soffocare in un’angusta idea di patria, piccola e ignorante. Insomma, non confondiamo la cultura con la mnemotecnica, quando sarebbe necessario costruire una memoria pubblica che ancora non esiste, talmente è osteggiata da visioni divisive.
Speriamo di non dovere imparare la Bibbia in latino a memoria!