Hamas e gli altri gruppi armati palestinesi di Gaza cantano vittoria. È un fatto che la loro completa disfatta non c’è stata, e che il governo israeliano, tra dissidi interni, dopo avere distrutto la Striscia e compiuto crimini di guerra a ripetizione, è costretto ad accettare oggi i termini di una tregua che avrebbe potuto approvare già sei mesi fa. Il segretario di Stato americano Blinken, del resto, l’ha detto: “Hamas ha reclutato pressoché lo stesso numero di militanti che ha perso”. La guerra, dunque, avrà tutte le possibilità di continuare. Intanto, però, potranno tornare liberi un po’ di ostaggi, quelli che non sono già morti; mentre, dall’altro lato, si calcola che circa un migliaio di prigionieri palestinesi saranno liberati, secondo un piano a tappe successive.
Reggerà questa tregua, per il momento comunque limitata a sole sei settimane? Nulla è meno sicuro. Ma una parola certa già si può dire: se si fosse trattato dopo il 7 ottobre 2023, giorno del feroce attacco da parte di Hamas, si sarebbero salvate le vite di molti ostaggi israeliani e il bilancio dei morti palestinesi non sarebbe stato così tragicamente pesante. Israele avrebbe conservato la sua dignità; ci sarebbe stato un sostegno internazionale costante alle sue iniziative, e soprattutto non sarebbe andata smarrita la prospettiva di “due popoli due Stati”, che d’altronde né Hamas né Netanyahu hanno mai perseguito, e che appare oggi sepolta.
Eppure, altra soluzione razionale al conflitto israelo-palestinese non c’è. La stessa Arabia saudita, che firmò gli “accordi di Abramo” durante la prima presidenza Trump ed è un Paese storicamente filoccidentale, pone come condizione per una rinnovata distensione nei rapporti con Israele che sia rimessa all’ordine del giorno la questione di un’autonoma entità statale palestinese. Non sarebbe corretto sostenere che questa speranza sia ormai cancellata per sempre. Proprio la capacità di resistenza di Hamas a Gaza, proprio i crimini di guerra di cui si sono macchiati gli attuali governanti israeliani, nel tentativo di sconfiggere definitivamente l’organizzazione islamista – insomma, proprio l’impasse evidente in cui finisce la guerra perpetua –, ripropongono e contrario la questione di una pace basata su una chiara demarcazione delle linee di confine tra i due popoli, sotto l’egida dell’Onu.
Ovviamente, ciò implicherebbe anzitutto un cambio della guardia a Tel Aviv. Netanyahu deve andarsene. Dovrà essere processato in patria per corruzione e da un tribunale internazionale per crimini di guerra. Finché resterà al suo posto, nulla di positivo ci si può attendere. Dall’altro lato, una prospettiva di pace potrà riaprirsi attraverso una riqualificazione (chiamiamola così) dell’Autorità nazionale palestinese, che fin da subito dovrebbe essere delegata a gestire la ricostruzione di Gaza. La tendenza islamista radicale, all’interno del mondo palestinese, dovrà essere ridotta e riportata nell’alveo di un’alleanza più ampia, l’unica che possa dare solidità a un fronte della resistenza oggi troppo frastagliato e diviso.
Come si vede, si tratta di condizioni non facili da realizzare. Ma sono anche i prerequisiti indispensabili di una tregua che riesca a durare.