Anche se l’ultimo scoglio non è ancora stato superato, il cessate il fuoco dovrebbe entrare in vigore domenica 19 gennaio o, al più tardi, lunedì 20. Sta per cominciare la prima fase di un piano lungo e tortuoso, di cui conosciamo solo i primi passi, lo scambio di prigionieri politici, su cui un accordo certo è stato siglato tra Israele e Hamas. Sappiamo anche a cosa dovrebbe portare il percorso “graduale” della seconda e terza fase: per le quali, però, esiste solamente un’intesa generale che dovrà essere riconsiderata e valutata attraverso nuovi colloqui.
Il cessate il fuoco, nella fase uno, durerà 42 giorni. Queste le linee guida: Hamas rilascerà trentatré ostaggi, non tutti insieme ma a cadenza settimanale; Israele rilascerà mille prigionieri palestinesi, tra cui alcuni che erano già stati rilasciati nell’ultimo scambio e poi riarrestati; l’esercito israeliano si ritirerà dalle città e dai centri abitati di Gaza, inclusa l’area del corridoio di Netzarim, che divide Gaza da est a ovest e, gradualmente, anche dal corridoio Filadelfia, al confine con l’Egitto; il ritiro completo dovrebbe avvenire entro il 50° giorno, ossia nelle fasi successive degli accordi; a Gaza entreranno seicento camion di aiuti umanitari al giorno; i palestinesi malati o feriti potranno lasciare la Striscia attraverso il valico di Rafah; la popolazione sfollata potrà ritornare verso il nord.
Nella serata di mercoledì, la gioia è scoppiata a Gaza. Le persone si sono riversate per le strade, già prima della conferma dell’accordo, cariche di fiducia e di speranza. Un’attesa lunga, fatta di morte e distruzione, è terminata tra gli abbracci e le lacrime liberatorie. Hamas ha da subito dichiarato di interrompere le operazioni militari e il lancio di razzi. Lo stesso non ha fatto Israele, che anzi ha bombardato con estrema violenza, uccidendo in poche ore quasi novanta persone.
Gli ultimi tre giorni sono stati terribili per la popolazione di Gaza. Più del solito, almeno. E gli abitanti sapevano che l’aumento dell’aggressività poteva significare che un accordo fosse davvero vicino. Era successo altre volte: mentre i colloqui sembravano giungere a un esito positivo, le vittime aumentavano. Tra martedì 14 e giovedì 16 gennaio, intere famiglie sono state spazzate via. I raid hanno preso di mira edifici e complessi residenziali, scuole-rifugio, accampamenti di sfollati. Circa centocinquanta bambini sono morti in questi primi giorni del 2025. Ventuno bambini uccisi solo nelle ventiquattr’ore successive all’annuncio dell’accordo. I medici della Striscia hanno raccontato che i corpi dei feriti arrivano negli ospedali a pezzi. Si parla di ricostruzione, mentre la distruzione non è ancora terminata.
Intanto, la società israeliana è in subbuglio; la politica dibatte frenetica, alla Knesset sarà scontro aperto. Anche in Israele c’è chi festeggia la notizia dell’accordo, e sono in tanti. Soprattutto familiari degli ostaggi ancora a Gaza, fautori della liberazione come obiettivo primario. Ma c’è anche chi ha bloccato con un sit-in le strade del Paese, per protestare contro il cessate il fuoco, contro il ritiro da Gaza, contro la possibilità che Israele non controlli il confine con l’Egitto e abbandoni il corridoio Netzarim, costruito proprio dai militari di Tel Aviv.
Coloro che più ferocemente si oppongono all’ipotesi di dialogo con Hamas sono il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, e quello delle Finanze, Bezalel Smotrich. I gruppi a cui appartengono – e che guidano nel parlamento israeliano, Potere ebraico e Sionismo religioso – rappresentano il suprematismo razzista dell’estrema destra, quella che dà voce ai coloni e alle frange religiose che considerano l’occupazione di tutta la Palestina storica, e di ampi territori nel Medioriente, legittima per diritto divino. È questo lo scoglio che l’accordo con Hamas deve ancora superare. Il voto alla Knesset, e prima ancora quello nel consiglio di sicurezza. Ieri seraBen Gvir ha dichiarato che Otzma Yehudit (Potere ebraico) lascerà la coalizione se il governo approverà l’accordo di cessate il fuoco. Anche così, la maggioranza rimarrebbe in piedi, a meno che non la abbandoni anche il gruppo di Smotrich.
In ogni caso, il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha più volte dichiarato che garantirebbe un sostegno esterno per evitare che il governo cada. Smotrich ha dichiarato che non si dimetterà solo se il premier gli assicurerà che, dopo il recupero degli ostaggi, gli attacchi a Gaza continueranno. E nelle ultime ore di giovedì è arrivata una dichiarazione da parte del Likud, il partito di Netanyahu, riportata dal “Times of Israel”, che ha praticamente smentito tutti i punti dell’accordo: “Contrariamente ai commenti del ministro della Sicurezza nazionale, Ben Gvir, l’accordo esistente consente a Israele di tornare a combattere sotto le garanzie americane, ricevere le armi e i mezzi di guerra di cui ha bisogno, massimizzare il numero di ostaggi viventi che saranno rilasciati, mantenere il pieno controllo della rotta di Filadelfia [sul confine egiziano] e del cuscinetto di sicurezza che circonda l’intera Striscia di Gaza, e di ottenere risultati che garantiranno la sicurezza di Israele per generazioni”. Non è da escludere una reazione di Hamas nelle prossime ore.
La situazione diventa sempre più complicata per Netanyahu, in chiara difficoltà. Lo è stato da subito. Poco dopo l’annuncio dell’intesa, Bibi ha bloccato tutto, accusando Hamas di voler trattare modifiche dell’ultimo minuto. Il gruppo islamista ha smentito, dichiarando di impegnarsi a rispettare l’accordo così come concordato. Intanto, l’incontro al gabinetto di sicurezza, previsto per le 11 di giovedì, ora locale, è saltato. In serata, i media israeliani hanno fatto sapere che il problema era stato risolto e che venerdì si sarebbe potuto riunire il gabinetto. Più tardi, però, il Canale 12 israeliano ha comunicato che Netanyahu avrebbe chiesto un giorno in più, per votare sabato pomeriggio e spostare l’inizio della tregua (e quindi la liberazione dei primi ostaggi) a lunedì 20 gennaio.
La Casa Bianca sarebbe furibonda. Donald Trump aveva deciso che si sarebbe insediato con la medaglia della “pace” appuntata sul petto. Ieri il giornale israeliano “Haaretz” si chiedeva con quali armi il tycoon avesse obbligato Netanyahu ad accettare un accordo che aveva rifiutato a fine maggio, rispedendolo indietro al presidente Joe Biden. “Per anni, la gente ha detto che Netanyahu è la somma di tutte le sue paure” – scrive il giornale –, “si scopre che Trump lo spaventa ancora di più, forse giustamente”. Ma ci deve essere molto altro, oltre alla paura. Trump e Netanyahu avranno trattato l’appoggio statunitense su una serie di altre, rilevanti questioni di area. La colonizzazione della Cisgiordania, le armi, il tema Iran prima di tutto. Non è un segreto che Israele voglia approfittare del fatto che il nemico sia ferito per infliggergli il colpo di grazia. È questo il piano finale per il “nuovo Medio Oriente” di Netanyahu. Ora che Hezbollah è ridimensionato e Assad ha abbandonato la Siria, Teheran è molto più debole. Le Guardie rivoluzionarie iraniane hanno dichiarato che il cessate il fuoco rappresenta “una grande vittoria per la Palestina”. Ma l’obiettivo primario del governo Pezeshkian è ora di uscire dall’isolamento, trovare nuovi partner internazionali, e provare a siglare degli accordi sul nucleare che allentino la morsa delle sanzioni, che stringono il Paese in grave crisi economica. Certo, sotto questo aspetto, la rielezione di Trump non consente alcun ottimismo.