Come prevedibile, l’ultimo appuntamento cultural-mondano-spettacolare della stagione si trascina dietro una schiera di proseliti che gridano al miracolo, mentre i nostalgici si indignano per il modo con cui è stato dipinto il ventennio nella figura di M. Da quando Antonio Scurati si è messo al lavoro, alacremente, per comporre la sua opera in quattro volumi frutto di accanita ricerca e altrettanto accanita stesura (ci si chiede, a volte, come abbia fatto lo scrittore a sopravvivere all’impresa), M. sta per Mussolini. Lo stesso titolo conserva la miniserie televisiva italo-francese diretta da Joe Wright, in onda su Sky Atlantic, che sta calamitando l’attenzione di chiunque aspiri a sentirsi parte di questo mondo e ad avere, di conseguenza, voce in capitolo.
Il buon senso ci porterebbe a dire: e vediamo anche questa serie, così poi possiamo parlarne anche noi. Ma la materia di cui tratta ci obbliga ad andare oltre ogni comune buon senso e a saltare questo passaggio, anzi a capovolgerlo. È per stare dietro al buon senso che ci siamo trovati fino a questo punto. Quale punto? La svolta reazionaria di mezza Europa, l’elezione di Trump-Musk a governatore di un mondo metà materiale e metà immateriale (entrambi seguono sogni deliranti di prolungamento della vita, come se la morte non fosse affare loro).È a causa di un pensiero accomodante, infarcito di chiacchiere sull’ultimo prodotto televisivo, che abbiamo permesso quello che è sotto gli occhi di tutti: una sterzata vertiginosa a destra. Chi ha studiato l’origine del fascismo e del nazismo non può non sapere che, grazie alla distrazione di massa e alla sottovalutazione del sintomo, da un giorno all’altro si precipita in un mondo in cui si cancellano i diritti civili, uno a uno. Non vogliamo, dunque, assecondare il buon senso. Ci rifiutiamo di vedere M. Il figlio del secolo.
Perché? Ci sono almeno cinque ragioni. La prima ha a che fare con il tempo. Mentre stiamo a casa a vedere una serie che ci sembra sfolgorante, pensando di vivere tranquillamente in democrazia, con tutti i nostri gadget a disposizione, qualcun altro passa il tempo cercando di capire come si può immaginare un mondo “igienizzato”, privo di immigrati, vecchi, malati e poveri.
La seconda ragione si lega al signor M. Perché diavolo un uomo che ha portato l’Italia nel baratro deve diventare un simbolo? “Simbolo del male”, giurano sceneggiatori, attori e regista. Non importa. Se ne fa comunque un mito. Mentre in un mondo diverso, più consapevole, meno distratto, l’unica M degna di restare nel nostro Dna sarebbe quella di Matteotti, confinato invece a figurina da omaggiare confusamente nell’anno del centenario. Per ricordarsi com’è stato brutalmente assassinato Giacomo Matteotti, il 10 giugno 1924, e com’è stato possibile che il Paese, dopo la sua morte, abbia permesso all’altra M di aggirare ogni misura e di assumere definitivamente, catastroficamente, tutto il potere, basta rileggere un qualsiasi libro di storia (fino a quando i libri di storia non saranno riscritti, possiamo farlo!) e (perché no?) anche le pagine che lo stesso Scurati dedica all’affare Matteotti, alla fine del primo volume, quando ribattezza l’Italia di quel momento storico “un Paese opaco”: “Sì, la maggioranza degli italiani, inorriditi dal delitto, vorrebbe la caduta del fascismo per bonificare le sue case infestate dai fantasmi ma poi, verso l’ora di cena, le esigenze della vita quotidiana prevalgono. La moralità non è tra queste. Il Paese è opaco, il suo sentimento della giustizia è fiacco, torbido. Il sentimento di rivolta si riduce alla passione morbosa con cui si segue la cronaca dello scandalo”.
Bene, qui arriviamo alla terza ragione per non vedere M. Il figlio del secolo. I difensori del prodotto sono convinti di essere i depositari del pensiero antifascista. Solo i detrattori possono odiare un prodotto che, nella sua essenza, dipinge M come una bestia ambiziosa e maschilista che sa fiutare lo spirito del tempo. Il pensiero manicheo non ha mai portato niente di buono, ma è evidentemente duro a morire.
La quarta ragione: il fenomeno spettacolare in se stesso. Non ci vuole una palla di vetro per immaginare il linguaggio di Joe Wright, sempre ad alto tasso spettacolare. Se il gusto teatrale, a tratti barocco, del regista britannico si coniuga perfettamente con i grandi romanzi dell’Ottocento come Anna Karenina e Orgoglio e pregiudizio, con riluttanza possiamo accettare l’iperbole espressionista abbinata alla narrazione del ventennio. E poco importa che Luca Marinelli, dichiarato antifascista (quindi con la coscienza a posto), abbia dato il meglio di sé per rappresentare un dittatore malato e folle. Anzi, il fatto che lui sia mimeticamente così bravo a impersonarlo dovrebbe allontanarci ancora di più dal consenso entusiasta. Le uniche immagini tollerabili di Mussolini dovrebbero essere, in un certo senso, quelle dell’Istituto Luce, cioè quelle documentaristiche. E non bisogna per forza scomodare Guy Debord per ricordarci come funziona la “società dello spettacolo”. Possiamo ricordare Jacques Rivette, che nel 1961 si mise a discutere sul “carrello di Kapò”: ai suoi occhi – e di quelli dei “Cahiers du cinéma” –, Gillo Pontecorvo si era macchiato di una scelta estetizzante, poco etica, dal momento che aveva scelto di mostrare, in Kapò (film del 1960), il suicidio di Emmanuelle Riva sui fili elettrificati: “L’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inquadratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo”. Pontecorvo, che era un uomo di grande sensibilità e cultura, si giustificò dicendo che il punto focale della scena incriminata non era nel gesto suicida di Riva, ma nell’indifferenza alla morte mostrata dalle altre prigioniere del campo, che sono sullo sfondo dell’inquadratura. Il grande critico francese Serge Daney avrebbe dedicato, qualche anno più tardi, un capitolo del suo libro Persévérance al “carrello di Kapò”, concludendo: “Non ci si deve mai mettere dove non si è, né parlare al posto degli altri”. Se negli anni Sessanta si era capaci di dire “no” a un semplice carrello di troppo, che cosa avrebbero detto, dalle parti dei “Cahiers”, di M. Il figlio del secolo?
Già lo spettacolo teatrale ci aveva lasciato qualche dubbio. Nel 2022, Massimo Popolizio aveva portato in scena il romanzo di Scurati spingendo sul pedale dell’espressionismo, attraverso una rappresentazione circense che ruotava attorno alla figura sdoppiata di Mussolini (interpretato dallo stesso Popolizio e da Tommaso Ragno). Ma il teatro è teatro, nel senso che, per sua natura, lascia la comunità di spettatori libera di vivere quel momento rituale senza cadere nel sortilegio. Una libertà che si accentua con il libro: la lettura è, di per sé, un processo attivo che ci chiama a un pensiero immaginativo di primo grado. Tutt’altra cosa una serie, che non è stata fatta da Straub-Huillet in bianco e nero senza musica (i due cineasti, che avevano scelto l’Italia per vivere, rimangono un esempio di rigore estetico), né da Pier Paolo Pasolini (il suo Salò e le 120 giornate di Sodoma rimane una soglia inarrivabile, nella sua natura non compromissoria e indigesta: due caratteristiche che dovrebbe possedere un’opera sulla violenza fascista) ma da un creatore di mirabolanti prodigi visivi, chiamato appositamente dai produttori per spaventarci – e allietarci – con i suoi giochi di prestigio.
Ed ecco la quinta ragione per non vedere M. Il figlio del secolo di Joe Wright. Convinti come siamo, con Serge Daney, che non ci si dovrebbe mettere mai dove non si è, e che questa materia non possa essere in alcun modo oggetto di uno spettacolo, possiamo però almeno dire di no. In fondo, non ci rimane che la disobbedienza come gesto di protesta. Non il consenso né la stroncatura, ma il semplice I would prefer not to di Bartleby lo scrivano. Grazie, preferirei di no.