Proseguiamo i nostri approfondimenti sulla cultura politica e le trasformazioni sociali. Dopo i precedenti forum sul welfare (vedi qui e qui), una discussione sullo Stato (vedi qui e qui) e un’altra sulla forma partito (vedi qui), proponiamo il tema del rapporto tra i movimenti sociali e i partiti. Ne abbiamo discusso in un incontro organizzato nella sede romana della Fondazione per la critica sociale, il 16 dicembre scorso, a cui hanno partecipato Rino Genovese, Agostino Petrillo, Paolo Andruccioli, Mario Pezzella, Antonio Floridia, Michele Mezza, Luca Baiada. La discussione ha preso le mosse da un paper di Agostino Petrillo, già pubblicato su “terzogiornale” (vedi qui). Anche per questo forum utilizzeremo il format sperimentato. Proponiamo cioè un testo composto dalle sintesi delle sbobinature degli interventi, arricchite dai file audio delle registrazioni.
Rino Genovese: partiti e movimenti, un rapporto difficile
In una precedente discussione eravamo arrivati a definire, con Michele Mezza, una proposta di forma partito che lui ha chiamato “partito semantico”, e che io traduco con “partito tematico”. Secondo Mezza, un partito utopico dovrebbe mettere all’ordine del giorno la contraddizione principale di questo momento storico, quella relativa al dominio delle tecnologie e degli algoritmi, che determina una divisione tra “calcolanti” e “calcolati”.
Oggi riprendiamo il discorso dall’analisi delle trasformazioni dei conflitti sociali, da quella che è una sorta di opacizzazione dei conflitti di classe, anche nell’ambito delle lotte sindacali, quelle di tipo economico-rivendicativo. Petrillo ha proposto una riflessione sul rapporto tra movimenti e partiti che non si può più leggere secondo i parametri novecenteschi, dopo una trasformazione radicale del modo di produrre e di consumare. Nel nuovo contesto, è necessario riflettere criticamente sulle teorie che supponevano la formazione della coscienza come un atto esterno alla classe operaia, in una visione che metteva inevitabilmente i soggetti del conflitto in una posizione subordinata. Con il suo paper Petrillo prova a rovesciare quella impostazione, e per il suo discorso si possono anche cercare esempi nelle cronache politiche contemporanee. Uno di questi potrebbe essere Podemos in Spagna, un partito nato da un movimento sociale. Senza proporre generalizzazioni schematiche, ci interessa di capire quali siano le dinamiche dei partiti che nascono dai movimenti, magari con un occhio anche alla tendenza opposta, senza trascurare lo spunto che ci ha dato lo stesso Petrillo nel forum precedente, ovvero la definizione del partito come di “una cosa che diviene” (con un riferimento al Lukács di Storia e coscienza di classe). Allora la parola ad Agostino Petrillo.
Agostino Petrillo: i movimenti non riescono a sedimentarsi in programmi
Nella riflessione politica e sociologica spesso è stata poco approfondita la questione del rapporto tra i partiti e movimenti, che erano visti generalmente come soggetti esterni (se non contrapposti) alle dinamiche istituzionali riguardanti invece i partiti. Negli ultimi anni si sono moltiplicate, però, le letture che tendono a sottolineare i punti di contatto. E soprattutto si è cercato di sostenere come non sia così facile immaginare nei partiti unicamente delle strutture gerarchiche, delle strutture verticali, e nei movimenti, invece, organizzazioni di tipo più orizzontale, più lineare. Spesso anche i movimenti hanno delle strutture, che sono complesse e articolate – pensiamo, per esempio, all’esperienza italiana dei 5 Stelle –, mentre è capitato che anche i partiti si dessero strutture più leggere.
Questa nuova figura dei partiti-movimenti, e dei movimenti-partito, si colloca in un contesto storico mutato in tutta Europa, in cui si sono accresciute le istanze di tipo partecipativo, anche se con molti limiti. Non siamo certo di fronte a una gigantesca ondata di partecipazionismo. Ma è sicuramente aumentato l’interesse dei cittadini per le strutture dell’amministrazione e del potere, soprattutto alla luce della crisi del 2008. Si sono manifestati casi come quello di Podemos, ovvero di esperienze con ipotesi politiche anche discutibili, e che rappresentano forme di nuovo municipalismo, come ha spiegato l’ex sindaca di Barcellona, Ada Colao. A proposito di queste ipotesi discutibili, mi è toccato di polemizzare con la ex sindaca, che propone una generalizzazione ed estensione dei fuochi del municipalismo in un’ottica (a mio modo di vedere) proudhoniana e ottocentesca. Anche in Podemos, l’esasperato municipalismo ha determinato alcuni pesanti errori nelle scelte.
Un’altra grande questione riguarda il fatto che i movimenti attuali (a differenza di quello che succedeva con l’esperienza storica del movimento operaio) sono “postmaterialisti”, aperti a una serie di istanze che vanno da quella ambientale a quella dei diritti civili e della persona, con una composizione molto variegata, e che appartengono ad ambiti estremamente frammentati e tra loro separati. E non c’è stato solo questo: abbiamo avuto inoltre movimenti connotati da un forte ribellismo. Penso all’esperienza dei “gilet gialli” in Francia, e non solo: anche a quello che si è mosso lo scorso anno nelle banlieues, una vera e propria rivolta che ha toccato tutta la Francia, coinvolgendo l’intero territorio, non più solo le periferie, una rivolta che continua ad alimentare uno scontro sociale di grandi dimensioni e di cui la politica sta risentendo fortemente. Un movimento, però, che non ha trovato uno sbocco politico.
Ci sono state poi delle iniziative, di piccoli e piccolissimi gruppi, di reti di gruppi, che non si possono neanche chiamare movimenti a pieno titolo, ma che sono gestiti anch’essi da realtà di quartiere e di base, o legate all’associazionismo, con propaggini (e qui veniamo alle analisi di Michele Mezza) nell’associazionismo a livello digitale, di collegamenti di tipo virtuale. Secondo un sociologo canadese, scomparso nel luglio scorso, Barry Wellman, che ha studiato a fondo queste esperienze di associazionismo in rete, le realtà che hanno funzionato meglio e hanno ottenuto i risultati maggiori, sono state quelle che avevano anche un loro radicamento territoriale.
Nel preparare questa introduzione al nostro forum, alla luce di quello che stava succedendo in Germania, mi sono letto varie cose sul fenomeno Alternative für Deutschland che genera molta preoccupazione, anche perché non lo si inquadra facilmente avendo avuto varie facce, essendo un serpente a più teste. Oltre ad agitare gli slogan anti-immigrati, ha avuto aperture verso le posizioni “no vax” durante la pandemia. Insieme ad allargamenti verso posizioni irrazionaliste. Si sono quindi sviluppati, in Germania, vari studi circa le ragioni di questo allargamento e sulle modalità con cui il movimento si sta trasformando in partito. Nel frattempo, gli stessi partiti tedeschi tradizionali cercano di guardare verso aree non tradizionalmente coperte dalla loro iniziativa politica. Qui viene in mente Luhmann, che spiegava il senso di adattamento dei sistemi. I partiti cercano di raccogliere le spinte che vengono dalla società per non subire la concorrenza di movimenti del tipo di Alternative für Deutschland.
Oggi è il tempo di pensare delle forme di partito con delle articolazioni sociali e territoriali molto diverse dal passato, perché è evidente che le forme tradizionali sono sempre più inadeguate. Come peraltro è vero, e di questo sono convinto, quello che diceva Rino Genovese introducendo il nostro forum: non è che non ci sia nulla che si muove, perché le lotte sociali ci sono. Se guardiamo bene, vediamo che quasi ogni giorno c’è una manifestazione o c’è qualcosa che passa nelle piazze. Ma c’è una difficoltà generalizzata a sedimentare quello che è il portato delle lotte, una difficoltà a cristallizzare e far diventare le lotte un patrimonio. Ed è in questo senso che dovrebbe esserci la capacità di aprire queste forme di partito nuove a quello che succede nei movimenti. Insomma: fargli scrivere il programma, perché poi chi è che scrive il programma dei partiti-movimento o dei movimenti-partito? E qui c’è tutto un problema della soggettività. Perché, come si diceva all’inizio, il partito è qualcosa che diviene, ma c’è anche il problema degli input che gli vengono forniti per divenire.
Rino Genovese: ciò che manca realmente
Mi sembra che la cosa più urgente che emerge dal ragionamento di Agostino Petrillo sia quella relativa alla sedimentazione delle lotte, e quindi il programma. È la ragione per cui i movimenti sociali alla fine ripiegano, perché non riescono a darsi un orizzonte temporale. L’orizzonte temporale più lungo viene dato da un partito. È questo il punto. Noi siamo ancora legati all’idea di partito non perché ci piacciano le burocrazie, e non certo per nostalgia nei confronti del Novecento. Ma perché vediamo che non ci sono altre chance per un movimento se non quello di interagire in qualche maniera con la politica ufficiale. Questa è una conseguenza della mancanza di uno sbocco rivoluzionario, almeno se pensato nella maniera novecentesca e, prima ancora, ottocentesca. Perché nell’elaborazione di Marx non c’era questo problema del partito, non esiste nelle sue opere una teorizzazione generale sul partito. Egli aveva l’idea che il conflitto sociale, inteso come conflitto di classe, quindi come conflitto fra salariati e capitalisti all’interno della fabbrica, avrebbe condotto a una estensione delle lotte tale che a un certo punto ci sarebbe stato un rovesciamento del capitalismo in virtù dello stesso crescere su se stesso del movimento.
Ma questa è una ipotesi che, già tra Otto e Novecento, non si è rivelata vera, ed è per questo motivo che sono stati creati i partiti operai. Noi oggi ci troviamo, mutatis mutandis, dinanzi a un problema analogo: cioè i movimenti sociali in sé e per sé non riescono ad avere una durata. E c’è anche un’altra faccenda, che possiamo collegare al discorso che si faceva qualche mese fa a partire dal paper di Mezza, e cioè, se il partito deve essere “tematico”, questo significa che deve anche suggerire i temi o selezionare gli argomenti che i movimenti sociali propongono. O suggerire i temi ai movimenti sociali o selezionare quelli che loro propongono. Se facciamo l’esempio dei “gilet gialli”, potremmo dire che quel movimento è stato estremamente ambiguo, ma, a differenza di altri, ha avuto la caratteristica importante di riuscire ad avere una durata molto lunga nel tempo; si è autoconvocato di settimana in settimana e ha creato uno scompiglio non da poco. Allora qual era il problema lì? L’orizzonte temporale quel movimento è riuscito anche a tenerlo. Ma la selezione dei temi qual era? Loro hanno cominciato dalla questione di un aumento delle tasse sui carburanti, e da lì è partita un’agitazione che era in gran parte della campagna e della provincia francese contro Parigi, contro la capitale. Che cosa bisognava fare e che cosa avrebbe dovuto fare un movimento-partito o un partito che avesse voluto proporre qualcosa ai “gilet gialli”? Avrebbe prima di tutto dovuto selezionarne i temi. Avrebbe dovuto dire: avete ragione a protestare contro una tassa sui carburanti che colpisce soltanto voi, ma avete torto a credere che non si debba andare verso una transizione ecologica. Ecco, questo è un esempio di che cosa significhi selezionare. E dato che il movimento ebbe, a un certo punto, un qualche successo – perché quella tassa fu ritirata –, si sarebbe dovuto proporre qualcosa per il dopo, per dare continuità al movimento. Quale sarebbe stato l’obiettivo successivo? Tutte queste cose sono immaginabili soltanto attraverso una forma partito. Poi Mezza ci direbbe che queste sono cose importanti, ma tutto sommato secondarie, perché anche la questione ecologica deve essere ricompresa all’interno di quella che secondo lui è la contraddizione principale, e cioè quella fra “calcolanti” e “calcolati”.
La questione si può anche vedere così, ovvero pensare di concentrare l’attenzione su un momento particolare; ma bisogna scontare il fatto che non c’è più quella osmosi, che sembrava ovvia nel Novecento, fra le diverse lotte. Ammesso che le lotte sociali ci siano, quando si verificano sono quasi sempre isolate tra loro, le rivendicazioni non si parlano. Anche l’ipotesi della costruzione di una coalizione sociale, che magari ponga in collegamento una lotta intorno ai tempi di lavoro e alla gestione dei tempi di lavoro sulla base degli algoritmi, non parlerebbe allo sviluppo di una rivendicazione nelle campagne, che vada a colpire il caporalato. Tutte queste cose, che pure oggi esistono, sono separate tra loro. Ed è soltanto attraverso un discorso che abbia a che fare con una nuova forma partito che si potrà immaginare un qualche collegamento fra questi livelli.
Mario Pezzella: “Socialisme ou barbarie”
A proposito di questa discussione sui movimenti, mi sembra interessante segnalarvi, a margine, l’antologia Socialisme ou barbarie (titolo di una rivista francese del secondo dopoguerra: con Castoriadis, Lyotard, Lefort). Da lì si possono indicare un paio di temi, tenendo ovviamente conto della collocazione storica, quindi delle differenze con la nostra attualità. Il tema centrale della ricerca di quegli autori riguardava proprio il rapporto tra partito e movimento. Loro partirono da una critica, non solo del Partito comunista del tempo in Francia (in questo sviluppando una dura polemica con Sartre che a quell’epoca lo appoggiava), ma anche una critica del trotzkismo. Alcuni di loro erano stati infatti trotskisti, ma poi abbandonarono quell’ideologia perché il trotskismo non aveva operato una critica radicale dell’universo sovietico: il trotskismo riteneva che, nonostante tutto, la forma partito nata in Unione sovietica fosse valida, ma che poi era stata rovinata dalla burocratizzazione. Mentre per loro era proprio la struttura leninista del partito che bisognava mettere in discussione. I componenti del gruppo erano dei consiliaristi (puntavano cioè al modello dei consigli). Allora il primo tema di cui si occuparono è relativo alle esperienze storiche dei consigli. Un esperimento era stato quello della rivolta ungherese del 1956. Poi si sono occupati anche della Catalogna, della guerra di Spagna, dei soviet nella rivoluzione russa, e così via, compresa la Comune di Parigi. In ogni caso va detto che, dal punto di vista storico, quasi tutte le esperienze consiliari sono state stroncate militarmente: non possiamo quindi sapere se abbiano la capacità di funzionare.
Vorrei precisare che il gruppo faceva sì riferimento al consiliarismo, ma al tempo stesso condannava qualsiasi tipo di feticismo: “L’azione autonoma non resta, né può restare, informale, ma deve incarnarsi in forme di azione e di organizzazione, in modalità di funzionamento e istituzioni che possano servirla ed esprimerla adeguatamente”. Il nucleo fondamentale di questo discorso si riferiva al fatto che non si tratta mai di porre un’alternativa secca tra movimento e partito, ma di trovare delle forme istituzionali che possano coesistere con il momento consiliare. Anche qui risultava molto forte l’esempio della Comune di Parigi. Il modello era la federazione dei consigli, ma il problema è l’organizzazione della rappresentanza. La cosa interessante è che non si nega la rappresentanza, anzi la si ritiene indispensabile. Solo che bisogna trovare delle forme di controllo e gestione della rappresentanza stessa. Nella Comune, per esempio, vigeva il “mandato imperativo”. Oppure c’era il diritto di revoca qualora il rappresentante facesse delle cose diverse da quello per cui era stato eletto rappresentante, e via di seguito. Ci sarà modo di approfondire questi temi.
Vorrei però segnalare un altro punto interessante che riguarda la questione della tecnica. Non si poneva un’alternativa tra tecnica come fatto positivo e tecnica come fatto negativo, non c’era un’alternativa secca, ma il problema è che non esistono né una fisica né una chimica capitalistiche. Non esiste neppure una tecnica nel senso generale del termine capitalista. Esiste però sicuramente una tecnologia capitalista, intendendo con questo termine lo spettro delle tecniche possibili in un’epoca determinata dallo sviluppo della scienza e dalla selezione dei procedimenti effettivamente applicati. La società ha scelto infallibilmente i procedimenti che per essa hanno un senso. Tra le alternative possibili di tecnica e di uso della tecnica, e la tecnologia a cui la scienza conduce, vengono scelte fondamentalmente quelle compatibili con lo sviluppo del capitale. La tecnica, quindi, come plesso di possibili, con usi tecnologici che possono avere esiti tra loro completamente diversi. “La tecnologia capitalista è essenzialmente caratterizzata dal tentativo di eliminare il ruolo degli uomini nella produzione e al limite di eliminare l’uomo tout court”. E questo è il principio capitalistico di efficienza, a cui invece quel gruppo opponeva un principio di efficienza socialista, che qui ora non c’è tempo di analizzare in tutti i suoi risvolti.
Antonio Floridia: intorno al “partito hub”
In questi ultimi anni, la mia riflessione sui partiti è andata avanti sia sul piano storico sia su quello teorico. Da circa un anno e mezzo, sto lavorando a un progetto di libro che si intitolerà “Apologia del partito politico” oppure “Elogio del partito politico”, una riabilitazione dell’idea di partito.
Quando si parla di partiti è necessario mettere, prima di tutto, un po’ di ordine dal punto di vista teorico. La prima cosa da dire è che, nell’analisi delle trasformazioni dei partiti contemporanei, spesso c’è uno slittamento indebito dal piano empirico-descrittivo a quello normativo. Io frequento molto i politologi. Sono una genia un po’ particolare, nel senso che spesso dalle analisi descrittive – di come sono cambiati i partiti, dalle analisi sugli iscritti, ecc. – si deduce che i partiti sono ormai quello che sono e tutto il resto è nostalgia. Nel sottofondo di queste analisi, c’è un approccio deterministico, di cattivo determinismo sociologico, o persino tecnologico, per cui sono i cambiamenti tecnologici o sociali che hanno una diretta connessione causale con la crisi o la trasformazione dei partiti. Un approccio teorico originale, invece, per partire da una citazione che ci ha proposto Petrillo (anche se non cita l’autore, che è Stein Rokkan), è la teoria delle fratture sociali. Questo grande scienziato politico ha teorizzato il fatto che il sistema moderno dei partiti, dalla metà dell’Ottocento in poi, si struttura attraverso la politicizzazione di grandi fratture sociali: quella tra città e campagna, tra centro e periferia, tra Stato e Chiesa. E da ultimo, alla fine dell’Ottocento, con la rivoluzione industriale, attraverso quella tra capitale e lavoro.
Ma oggi quali sono le fratture sociali? Anche se non esiste un’azione meccanica, i partiti sono prima di tutto imprese strategiche costituite da “imprenditori politici”, cioè da gruppi dirigenti che aspirano a rappresentare delle novità nella società o interessi presenti nella società. Un altro concetto teorico è stato proposto dal filosofo politico britannico, Michael Saward, quello del representative claim, della pretesa rappresentativa. I partiti nascerebbero dalla pretesa di gruppi di leader o gruppi dirigenti che ambiscono a costruire una rappresentanza, costruendo una politicizzazione delle fratture. I partiti nascono dal basso, nel senso che devono esserci delle condizioni sociali e culturali, dei movimenti sociali, degli interessi che si consolidano. Ma nascono anche dall’alto, perché, oltre alle condizioni di base, c’è un’azione strategica consapevole di chi organizza e struttura il conflitto. Da questo punto di vista, i partiti sono dei grandi strumenti di regolazione del conflitto.
I partiti di massa nascono negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento negli Stati Uniti. E nascono sull’onda dell’allargamento del suffragio universale. I politologi teorizzarono il fatto che i partiti fossero l’unico modo per gestire e strutturare un rapporto stabile con l’elettorato e la società nelle condizioni specifiche dell’America reduce dalla rivoluzione di fine Settecento. Un Paese molto caotico e frammentato, i cui partiti sono stati il fattore di coesione integrativa fondamentale della società. In questo processo ci sono stati dei protagonisti, come un personaggio poco noto forse al grande pubblico, ma che ha avuto un’importanza storica notevole: il vice di Andrew Jackson, e poi egli stesso presidente degli Stati Uniti dal 1837 al 1842. Si chiamava Martin Van Buren, e fu il teorizzatore del partito di massa strutturato con gli organi collegiali, la direzione centrale, gli organi periferici, la stampa di partito, che viene ramificata e venduta in franchising ai giornali locali. Insomma, tutta una serie di convenzioni per la partecipazione degli iscritti alla scelta dei candidati: i partiti come grandi macchine elettorali.
La storiografia più attenta ha identificato in questa funzione di coesione sociale, di integrazione e regolazione del conflitto, qualcosa di fondamentale per il ruolo dei partiti. I partiti entreranno in crisi, però, alla fine dell’Ottocento, quando entrarono in campo le grandi corporations industriali e finanziarie. A quel punto, la mediazione tra politica e istituzioni, e la società, non fu più affidata ai partiti, ma a gruppi di interesse, alle lobby, alle agenzie indipendenti di pura amministrazione. Tutto questo per dire che sbagliamo a guardare alla storia dei partiti come a un cumulo di macerie. Al contrario, la storia dei partiti, nei suoi momenti migliori, può offrire ancora molti elementi di valutazione, dei moduli teorici che possono essere ripresi e riarticolati.
Floridia spiega i contenuti del libro a cui sta lavorando: seguendo i passaggi storici dello sviluppo dei partiti e dell’elaborazione teorica circa le forme della politica (vai all’audio).
È stato avviato un ripensamento sul ruolo dei partiti nella società. Negli anni passati si era accreditata l’idea che dei partiti si potesse fare a meno. Ora, invece, vedo in giro molta preoccupazione su una democrazia senza partiti, e un aumento della riflessione sulla democrazia deliberativa e partecipativa. So bene che esistono correnti che teorizzano la partecipazione anche di tipo deliberativo come un surrogato, una sostituzione delle forme della democrazia rappresentativa o delle sue forme – ma è secondo me un pensiero puramente illusorio. La democrazia deliberativa è un approccio teorico molto interessante e utile, ma deve essere strettamente integrato, questo è il punto chiave. Per cercare di rifare un partito che funzioni, si deve lavorare sulla connessione tra partecipazione e discussione e decisione, cioè avere ben chiaro che ci vuole una dimensione organizzativa e procedurale che permetta di mettere in contatto i vari livelli. Ragionando sul tema del rapporto tra movimenti e partiti, potremmo definire, con una metafora, il partito hub, che sappia essere il momento di connessione e diffusione di dinamiche sociali e culturali. Parlare solo di “ascolto della base” rischia di essere una formula vuota. Connettere invece il confronto delle idee e il programma con la partecipazione e il momento della decisione. Il problema è ristrutturare i processi di partecipazione della cosiddetta base, in modo da valorizzare esperienze e competenze che arrivano dalla società, e quindi costruire percorsi strutturati di elaborazione intellettuale collettiva, che permettano di puntare su una partecipazione che non può più essere di pura testimonianza ideologica, ma di costruzione cognitiva, di informazione, ed è chiaro che in tutto questo c’entra moltissimo anche la rete, che è uno strumento fondamentale, ma comunque uno strumento, per cercare di accelerare e diffondere informazioni, idee e conoscenze.
Con questo chiudo, citando un bel libro di Paolo Gerbaudo sui partiti digitali, in cui si studiano le prime esperienze di uso della rete da parte di Podemos e dei 5 Stelle. Per quanto riguarda Podemos, anche nel suo momento migliore, c’è un uso plebiscitario della rete, com’è successo anche con i 5 Stelle prima maniera. C’è poi da studiare il modello del partito di Mélenchon, che si può definire come una forma di anarco-cesarismo: l’elemento anarchico sta nel fatto che la base dispone di una forte autonomia di iniziativa, e che c’è molta inventiva dell’autorganizzazione che viene valorizzata, almeno a parole. La caratteristica cesaristica si spiega pensando alla grande libertà di azione e di organizzazione della base, che però d’altro canto ha una capacità di decisione pressoché nulla. E tutto questo si ritrova nel partito di Mélenchon, che (nonostante le simpatie che possiamo avere) rischia di paralizzare il sistema politico francese. Mélenchon sta pensando infatti esclusivamente alla sua ricandidatura all’Eliseo, lasciando in difficoltà sia i verdi sia il Pcf, ridotto ai minimi termini. Visto il risultato elettorale e il contributo degli elettori di sinistra, perché non si è presa un’iniziativa politica per cercare di costruire un’alternativa credibile?
Michele Mezza: l’idea consiliare può rinascere in rete
Le cose dette in questo forum sono tante e interessanti. Per quanto mi riguarda, devo dirvi che ho trovato straordinario l’articolo che il cardinale Zuppi ha pubblicato di recente su “Repubblica”. Da molti anni non leggevo una riflessione così di sinistra sulla democrazia, a partire da due straordinarie considerazioni. Cito testualmente: “La crisi della democrazia non è solo crisi di classe dirigente, ma anche crisi dei popoli e cioè dei vincoli di solidarietà che fondano legami stabili, nel senso di un destino condiviso”. Secondo passaggio molto illuminante, quando dice che l’obiettivo è quello di costruire fenomeni sociali che “strutturano maggioranze”. “Ed è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine, se non si ottiene che diventi un sogno collettivo”. Questo del sogno, che può sembrare un cedimento onirico che il cardinale fa all’Altissimo (da cui dipende e che gli paga lo stipendio), in realtà propone un elemento fondamentale. Credo che non si dia partito che non abbia la finalità di costruire un sogno. Di qui, la vera distinzione fra partiti di governance e partiti di governo: la governance e la continuità amministrativa di essere più bravi a fare le circolari ministeriali. Ma non pare che sia l’elemento che paghi, perché la gente non va a votare per quelli più bravi a fare le circolari ministeriali. Il problema del sogno è il problema di una finalità di discontinuità sociale radicale, e non a caso questi sogni, negli ultimi tempi, ci sono venuti tutti da destra: dico a Petrillo, ci sono movimenti che si sono fatti partiti vincenti e si chiamano Berlusconi, Grillo, Trump, per non arrivare a realtà ancora più caricate, come Milei o Bolsonaro, e via di questo passo.
La destra ha utilizzato un elemento di straordinaria materialità che cinquant’anni di antropologia digitale hanno prodotto. Perché noi continuiamo ad aggirarci con fare curioso e pensoso attorno alla rete, che ha già mezzo secolo di storia, che ha sedimentato relazioni, regole, codici, linguaggi e culture; e una di queste regole è quella che rende ogni singolo utente abilitato a essere parte diretta di processi deliberativi. In rete lo scambio è: io ti do la mia attenzione, tu mi fai decidere, altrimenti ti mando sulla forca. E tale è il processo che poi diventa astensionismo rispetto all’arroccamento dei gruppi dirigenti e sulla condivisione dei processi deliberativi. Nella fase precedente, in quella che abbiamo alle spalle, e ci pare un’età dell’oro, i gruppi dirigenti separavano in maniera radicale la decisione dalla partecipazione. La partecipazione creava l’aura, il gruppo dirigente organizzava le decisioni. Oggi questo processo è molto più conteso.
Allora, il primo punto, seguendo il ragionamento del cardinale Zuppi, quale popolo per un partito? Quale popolo scegliamo per un partito perché non esiste oggi un popolo oggettivo. Esistono realtà, ceti subalterni, esistono realtà di sfruttamento, oppure di frustrazione o di alienazione, ma non sono popolo, sono appunto realtà. Come si organizza una capacità di dare forma a una base sociale, che esprime una rappresentanza e reclama un’organizzazione? Il punto è questo. Per cui, a proposito di Floridia che parlava di fratture sociali, io penso che ci sia una frattura sociale, oggi, che attraversa l’intero universo. Ne ha parlato proprio stamattina il presidente della Repubblica, Mattarella, riferendosi alla sovrapposizione dei grandi gruppi digitali rispetto agli Stati nazionali. Lì c’è una deformazione di ogni meccanismo di rappresentanza e di forma di organizzazione, di democrazia, sia globale sia locale. Il punto è capire se questa frattura regge, genera e produce una teoria su una forma di organizzazione che determini tutto il resto. Voglio ricordare a Petrillo che i movimenti digitali non sono quelli che usano la rete. Sono quelli che contestano la rete, è un’altra partita. Quelli che usano la rete sono quelli che giocano a flipper, e fanno anche bene a divertirsi. Il tema è come si consuma una rottura radicale rispetto alla proprietà di due materie prime: dati e algoritmi. Il resto è paccottiglia, altrimenti non centriamo quella che può essere la base di un processo di relazione sociale. Non a caso la questione degli stipendi e dei bassi salari viene sollevata da un ex banchiere, come Draghi, che lamenta il fatto che l’inghippo economico sia dato dai bassi salari che non producono sufficiente consumo. Ma non è il punto della contraddizione che cambia la realtà, il sogno. Allora credo che quello che oggi sia il vero buco nero in cui siamo è l’incapacità e la non volontà di affrontare, in termini conflittuali, una negoziazione dei processi e delle relazioni digitali. E dico questo perché penso che, per affrontare questo tema, bisogna inevitabilmente mettere a repentaglio la struttura organizzativa e i primati delle élite che dirigono i partiti. I capponi di solito non festeggiano Natale. Il rifiuto di entrare in questo processo di conflittualità digitale è quello che è. La segretaria del Pd passa in rassegna tutti i casi, ma non ha mai toccato finora il tema di una contestazione dei poteri delle proprietà digitali in questo Paese, pur essendo una persona informata al riguardo, avendo vissuto anche l’esperienza della campagna elettorale di Obama. Ha dovuto farlo oggi Mattarella.
Abbiamo subìto due tornate elettorali in cui il risultato è stato deformato da un’intromissione digitale, che ha conteso in alcuni collegi contendibili alcuni milioni di voti. Allora penso che si apra un “cantiere partito” individuando un soggetto che non può non avere come nucleo centrale quelle figure professionali e organizzazioni sociali in grado di interferire con i processi di formazione e reputazione dei servizi e delle attività digitali; sto parlando di figure professionali, di organizzazioni della ricerca, del mondo delle università e dei saperi; sto parlando di alcuni soggetti non convenzionali, come le città che usammo negli anni Sessanta per contestare la rendita fondiaria e la speculazione edilizia con i piani regolatori, e che oggi dovremmo rimettere in campo per contestare il processo di accumulazione di spesa pubblica e dati indotti dalle smart cities. Su questo terreno, torniamo a uno scontro che sta nella pancia della sinistra. E che io esemplifico nei due corni del dibattito dell’operaismo italiano: Tronti e Negri. Quell’autonomia del politico che portò la sinistra italiana a esorcizzare i temi della rappresentanza sociale all’inizio degli anni Ottanta, quando il quadro si faceva più opaco e complesso. Andava sbrogliata lì la matassa. Ed è lì che i partiti della sinistra si ritirarono dalla società in un delirante disegno bonapartista di dirigere la propria autoriforma dall’alto. Dall’altra parte, si sviluppò un processo con altre forme di delirio, come quello insurrezionalista, che avvelenò un’intuizione che era quella della sostituzione del lavoro con il consumo, della relazione che trasforma la città in una fabbrica sociale. Per questo, bisogna andare a ricostruire culture, teorie, modelli e profili organizzativi. Sapendo che, da questo punto di vista, non possiamo immaginare scorciatoie.
Siamo alla vigilia di un’ennesima torsione dei processi tecnologici, che mirano direttamente a interferire con l’evoluzione genetica della persona umana. Oggi il tema sanità è una banalizzazione, perché quello che è in discussione è la sovranità sul controllo dell’evoluzione umana, mediante processi diagnostici e terapeutici tutti affidati a una struttura interna dei sistemi di calcolo. Ecco, questo è un po’ l’universo in cui credo che ci si debba porre il tema di come si fa partito, cioè di come si organizza, con i tempi e le modalità di questo mondo, che sono tempi e modalità molto discontinui, in cui la stabilità non è un pregio e in cui la solidità non è un elemento di vantaggio, mentre sono la fluidità e la riconfigurazione permanente i temi da rendere gestibili e governabili.
Ultimo elemento, con cui chiudo: riguarda il dualismo tra leninismo e consiliarismo. Una visione consiliare prevedeva, all’interno del partito, una terza fase (così era stata teorizzata nelle tesi del “Manifesto”, nel 1969-70) in cui c’era un autogoverno della base sociale. I consigli diventano partito negoziando, nel partito stesso, i processi deliberativi con strutture di autogoverno. Con questo si proponeva una federazione delle aree urbane delle città. Una visione che rivedrei in questi termini: le “casematte” si costruiscono nel cuore delle macchine di urbanizzazione, e possono diventare dei piloni, dei perni, a cui sottendere dei reticoli di relazione, che potrebbero darci un’idea di organizzazione dell’immateriale.
Mario Pezzella: commento all’intervento di Michele Mezza
Mi ha interessato moltissimo questo intervento di Michele, perché rilancia quella cosa che io avevo detto in termini un po’ storicistici. Il punto è questo. Dobbiamo chiederci se attraverso la tecnologia digitale, con un uso alternativo della tecnologia digitale, ci siano oggi le condizioni reali per potere realizzare il sogno del consiliarismo. Quando Mezza parla di un’articolazione che parte, appunto, dal momento partecipativo consiliare, e può permettere di giungere a una decisione non pilotata dall’alto, mi sembra proprio che sia questo un elemento fondamentale; sono molto interessato a questa prospettiva, l’unica cosa realmente praticabile per giungere a delle forme istituzionali nuove.
Luca Baiada: la Francia, la Germania, l’Italia, il populismo forcaiolo
Si parlava della Francia. Proprio quello che è successo lì è emblematico: si è tentata una mobilitazione che aveva una base radicata in vari modi, ma che aveva un impianto condizionato in chiave prevalentemente elettorale, di tipo frontista. Lì per lì ha vinto, ma subito è stata sterilizzata da manovre politico-affaristiche, a sfondo di potere, al punto da rovesciare l’esito elettorale. C’è da domandarsi: se la coalizione delle sinistre avesse avuto davvero un radicamento sociale stabile, questo colpo di mano avrebbe funzionato?
Il documento di Petrillo ha colto bene il rapporto movimentismo-leaderismo: la situazione tedesca lo dimostra. Per me, lo dimostra sia con AfD sia col partito personale di Sahra Wagenknecht, che ripropone aspetti preoccupanti, verniciati di sinistra. Le due formazioni sembrano quasi essersi divisi i compiti: una fa paura nel programma, mentre il modello finge partecipazione; l’altra fa paura nel modello personalistico, con un programma che in parte è di sinistra. Su questi temi è importante avere chiaro il ruolo del diritto.
In Italia, la manifestazione di massa forse più importante degli ultimi tempi è stata quella di un anno fa, dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin. Che porta con sé tutta una serie di retrogusti. Di fatto si è manifestato un populismo forcaiolo, espresso sventolando ferraglia (le chiavi), culminato di recente con tre pallottole spedite al difensore dell’imputato (per quanto si tratti di un imputato chiaramente colpevole di un delitto gravissimo). Questi fatti confermano che, da trent’anni, il diritto, anche frainteso, prende il posto della politica senza riuscire a rimpiazzarla. Si tratta di una cifra molto inquietante della mobilitazione politica non strutturata. Lo conferma anche la saldatura fra odio per i migranti e odio per magistrati, due belve con caratteristiche diverse tra loro: il migrante è l’invasore, il giurista è il nemico interno. Anche se sono soggetti diversi, oggi si ritrovano a essere perfettamente intercambiabili nel perimetro dell’odio confuso che imperversa. Un odio innervato da voglia di padrone e spontaneismo pericoloso. Così il giustizialismo degli anni Novanta mostra la corda: i girotondi diventano ronde contro la giustizia, al punto che ci sono giudici, magari orientati a sinistra e per il garantismo, che devono essere protetti e vivere sotto scorta. Anche questa è la cifra di uno spontaneismo politico, che sbanda a destra con una facilità palpabile.
Fra i modelli assembleari va citato il confederalismo democratico di Öcalan e del Rojava, su cui però sappiamo poco. Se viene attaccato dall’affarismo e dal fanatismo religioso, in fondo è una conferma di un paradigma repressivo collaudato. L’affarismo industriale-militare sta allo sfruttamento dei migranti come l’allergia al diritto laico sta alla legge religiosa.
I grandi partiti di massa erano basati su blocchi di produttori, ma la produzione è stata in parte rimpiazzata dal consumo, come struttura e paradigma sociale. Però i consumatori, ammesso che siano un blocco sociale, non riescono a esprimere un partito strutturato e orientato. Non riesce, il consumo, ad avere l’orizzonte temporale e il programma di cui Rino Genovese sottolinea il bisogno. Il lavoratore sfruttato dall’algoritmo è un oggetto di calcolo, un “calcolato”, secondo Mezza, che almeno riesce a rendersi conto del meccanismo; invece il consumatore è un “calcolato” a sua insaputa, e la società dello spettacolo lo illude di poter comprare un valore che svanisce nel momento stesso in cui paga un prezzo.
Un’ultima battuta sui politologi come becchini della politica. Non l’hanno ammazzata loro, ma campano sul suo funerale. Valgono come l’esperto, il profondo conoscitore, l’analista, l’opinionista, una serie di figure forse necessarie, ma che sono arrivate come rimpiazzi di tutt’altre espressioni, soprattutto – si direbbe – delle mobilitazioni organizzate.
Agostino Petrillo: conclusione
Sono molto contento di come è andata la discussione. Ci sono stati dei contributi interessanti da più parti. Poi, per quanto riguarda alcuni elementi, tra cui quelli di cui parlava Michele Mezza, preciso che non volevo in alcun modo mettere in discussione l’importanza della dimensione digitale, la questione dell’algoritmo e della decisione, l’importanza che hanno questi elementi e la loro influenza enorme sulla politica e sulle stesse scelte dei partiti. In proposito, però, potrei raccontare un episodio curioso. Qualche mese fa, prima dell’infausta tornata elettorale in Liguria, mi hanno chiamato a un tavolo della partecipazione del Pd. Mi sono reso conto che c’erano quattro o cinque tavoli di discussione, con dei titoli abbastanza strani, con parole chiave che avrebbero dovuto attivare la discussione su ciascuno dei tavoli. Allora ho chiesto a una giovane rampante del Pd come erano stati individuati i titoli. Mi ha risposto candidamente: l’abbiamo chiesto a Chat Gpt.
Ma c’è un’altra questione che veniva sollevata sempre da Michele Mezza che mi è piaciuta molto, e riguardava la questione del popolo, ritornata poi anche nel discorso di Baiada. Anche qui racconto un piccolissimo aneddoto. La settimana scorsa, ero al mercato popolare a Genova (dove vado sempre perché l’unico potabile per le mie tasche), e una vecchietta, che stava litigando con un’altra per accaparrarsi un capo, a un certo punto ha detto le seguenti testuali parole: “Questo succede perché siamo diventati tutti più cattivi; più siamo poveri e più siamo cattivi”. Per cui, questa cosa che sente Baiada è nell’aria. Quale popolo dunque? Sicuramente oggi assistiamo a un livore sociale, a una tensione che è pronta a scaricarsi di volta in volta anche su figure precise come il migrante, il magistrato eccetera. Come scarico di tensioni sociali, che non trovano una loro espressione. Poi il piccolissimo esempio che facevo in riferimento alle analisi sulla partecipazione non voleva trascurare, ovviamente, la grande partita che si sta giocando a livello di tecnologia e intelligenza artificiale.
A me sembra, però, che ci sia anche un’altra questione da prendere in considerazione. Quella che Etienne Balibar chiamava l’alternativa costante tra insurrezione e istituzione. In realtà, prima o poi queste spinte, queste tensioni, trovano un loro climax, un loro momento di espressione e di concentrazione. Oggi un discorso sul partito e sulla forma partito deve anche traguardare oltre, alla possibilità che si verifichino eventi sostanziosi e importanti. Accelerazioni storiche improvvise, perché insomma una delle poche cose che abbiamo imparato dai classici è che “historia facit saltus”, e poi di colpo ci si trova sbalzati in situazioni completamente impreviste. Secondo me, questo cantiere sulla forma partito è importante, deve andare avanti, deve cercare pian piano di assumere dei contorni più definiti. Da questo punto di vista, anche il contributo che è venuto stasera da Antonio Floridia è stato ricco, molto interessante, e ci dà già la possibilità di mettere giù qualche mattoncino.