(Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2024)
Hanno suscitato clamore le recenti frasi della figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rita, che si è mostrata in tv (“Tango”, trasmissione della Rai), da devota berlusconiana ad accusatrice di Andreotti, per l’assassinio del padre. Evidentemente la signora ha perso una certa naturalezza davanti alle telecamere, alle quali è stata a lungo avvezza come una delle front-women di Mediaset. Di lei il faccendiere Bisignani, già piduista, non ha mancato di ricordare, in un articolo scritto subito dopo il fatto, le frequentazioni del Premio Fiuggi accanto al suo compagno e presentatore Fabrizio Frizzi e – sorpresa – al presidente Andreotti.
La sortita della deputata forzista è stata evidentemente accidentale, indotta dall’abilità dell’intervistatrice Costamagna, che non ha lasciato cadere l’occasione di fare quel nome – A come Andreotti – di fronte alle frasi dell’ospite, che accusava un’area politica, non volendo fare il nome del politico per rispetto della di lui famiglia. La situazione, a quel punto, le è sfuggita di mano, e la conseguenza è stata una specie di vampata di fine estate, destinata a durare quel che è durata senza lasciare alcuna conseguenza, visto che più di quel che già si sa la signora non ha detto.
Le migliaia di carte giudiziarie nascondono tra le righe una verità che appartiene a un altro tempo, complessa, contorta, inafferrabile. Arrivato a Palermo per combattere la mafia, il generale aspettava di avere i poteri adeguati che ancora non arrivavano. È assai improbabile che Cosa nostra abbia voluto sfidare apertamente lo Stato, che egli andava a rappresentare, proprio all’inizio del suo mandato. La verità è che il generale arrivava a Palermo dopo essere passato per Torino, Milano e Roma, dopo avere gestito il super-pentimento di Patrizio Peci, dopo aver dato la caccia alle carte di Aldo Moro prigioniero che le Brigate rosse, disattendendo clamorosamente le promesse, non hanno mai rese pubbliche. Se lo avessero fatto, nel 1978, forse si sarebbe già potuto capire che esistevano gli eserciti segreti della Nato, oppure, dopo il “processo” alla Dc fatto dall’ostaggio – non certo dal gruppo rivoluzionario – si sarebbero comprese meglio le responsabilità dello scudo crociato nelle coperture e nelle protezioni offerte agli strateghi della tensione. C’era tanta roba a via Monte Nevoso.
Nei giorni immediatamente successivi alla scoperta del covo, il giornalista Mario Scialoja, che godeva di ottime fonti legate all’area brigatista, scrive che a lui risultava che le Brigate rosse stessero discutendo sul dopo Moro e fossero in preda a un dilemma: “Pubblicare così come è la risoluzione che era già pronta (87 pagine dattiloscritte con alcune cancellature)? O integrarla con una nuova analisi introduttiva che tenga conto delle operazioni di Dalla Chiesa? Oppure far uscire tutti i verbali degli interrogatori di Moro (anche quelli che non avevano inserito nel dossier), vale a dire duemila pagine dattiloscritte circa?”. Duemila, tante pagine, chissà dove sono finite.
Dopo la scoperta del covo, e dopo tutto quel marchingegno complicato della cover operation (per definizione segretissima e destinata a rimane tale) che l’ha accompagnata – come arrivarono al covo? Non si è mai saputo. Seguirono Nadia Mantovani dopo averla fatta uscire dalla prigione e mandata ai domiciliari (da lì riparò imprudentemente nella base più importante delle Br)? Quel che è certo è che il “malloppo” sopravvisse all’irruzione dei carabinieri di Dalla Chiesa. Questi entrò nella partita probabilmente pensando di poterla vincere: ma quando andò di corsa nella capitale, la sera stessa della scoperta del covo brigatista milanese di via Monte Nevoso, il 1° ottobre 1978, probabilmente capì che la faccenda era assai complicata.
Franco Evangelisti, fedele collaboratore di Giulio Andreotti, deponendo nel 1993 al processo di Perugia per l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli, raccontò: “[Sono stato] molto amico del generale Dalla Chiesa che si incontrava spesso con il senatore Andreotti nel periodo in cui Andreotti era presidente del Consiglio e io sottosegretario alla presidenza; gli appuntamenti [tra loro] passavano in genere per mio tramite; all’epoca, segretaria di Andreotti era la signora Muzi ma dalla Chiesa preferiva rivolgersi a me; per ciò che concerne la storia del memoriale [di Moro], Dalla Chiesa venne a trovarmi verso le due di notte, mi fece leggere un dattiloscritto di circa 50 pagine, mi disse che proveniva da Moro e che il giorno successivo lo avrebbe consegnato ad Andreotti”. (Deposizione di Franco Evangelisti del 23 maggio 1993, in “Atti del Processo Pecorelli”).
Andreotti aveva già tutto, anche le parti mancanti che sicuramente il generale riuscì a recuperare: avendo in mano una specie di bomba atomica. Incalzato da Leonardo Sciascia, durante una audizione della commissione Moro, il generale alla domanda: “Pensa che [le carte di Moro] siano in qualche covo?” Egli rispose: “Io penso che ci sia qualcuno che possa aver recepito tutto questo” (Audizione del 23 febbraio 1982).
Quando arrivò a Palermo, si trovava nel luogo giusto per chi avesse voluto sbarazzarsi del suo potere: la sua uccisione sarebbe stata rubricata come un assalto mafioso. Lo fu, ma dentro un contesto politico ben preciso: il 30 aprile del suo ultimo anno di vita, il funesto giorno della uccisione del segretario comunista nell’isola, Pio La Torre, e del suo collaboratore Rosario Di Salvo, appuntò sul diario: “La Dc a Palermo vive con l’espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che politico, lo Stato affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa ma allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti […] Pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi dovranno essere toccati o compresi”. Un doppio livello di interessi politico-mafiosi: i primi si palesarono svuotando la cassaforte del generale nella sua residenza palermitana.