In un’intervista a “Le Parisien” del 18 dicembre, il presidente ucraino Zelensky ha ammesso che il suo Paese non è in grado di recuperare le parti del territorio attualmente occupate dai russi, cioè la Crimea e il Donbass, e che quindi conta sull’aiuto dell’Occidente per costringere Putin ad avviare un negoziato. Con questa dichiarazione, Zelensky sembra fare una clamorosa marcia indietro rispetto al decreto da lui stesso emanato il 4 ottobre 2022, che vietava di intrattenere qualunque tipo di negoziato “con il presidente della Federazione russa Vladimir Putin”. Si tratta però di una ritirata solo parziale, come vedremo.
In primo luogo, subito dopo la diffusione dell’intervista a Zelensky, il nuovo segretario generale della Nato, l’ex premier olandese Mark Rutte, ha affermato che parlare di pace, oggi, significa “rendere la vita molto facile ai russi”, e che invece è necessario continuare ad armare l’Ucraina perché possa assumere “la migliore posizione possibile, quando un giorno deciderà di avviare i colloqui di pace”. Niente di molto diverso, dunque, da quanto i vari leader occidentali ripetono dal 24 febbraio 2022, ossia “pace sì, ma alle condizioni dell’Ucraina”. Inoltre, come risulta da varie notizie diffuse a partire dalla mattina del 19 dicembre, Zelensky, al suo arrivo a Bruxelles per partecipare al vertice dell’Unione, si è espresso in termini un po’ diversi da quelli usati il giorno prima: “Dobbiamo contare ancora sull’unità, sull’unità tra gli Stati Uniti e l’Europa. È molto difficile sostenere l’Ucraina senza l’aiuto dell’America. Ed è di questo che parleremo con il presidente Trump quando sarà alla Casa Bianca”. Ancora una pressante richiesta di aiuti all’Occidente, e in particolare agli Stati Uniti, ma nessun cenno, almeno esplicito, al negoziato.
Per tentare di capire cosa veramente intenda Zelensky e, in generale, quali siano i possibili sviluppi futuri di un conflitto che dura ormai da quasi tre anni, può essere utile considerare l’attuale situazione delle forze in campo, almeno per quanto ci permettono di fare le informazioni che abbiamo a disposizione.
Com’era chiaro da tempo, e come ammette lo stesso Zelensky, l’esercito ucraino è ormai allo stremo: il numero degli uomini validi da impiegare al fronte si riduce sempre più, anche a causa delle renitenze alla leva e delle diserzioni, in continuo aumento; e, pur ricevendo l’Ucraina enormi aiuti militari da parte dell’Occidente, le armi non servono a molto se non ci sono gli uomini per usarle. Dall’altra parte del fronte, i russi possono contare su un numero di combattenti molto superiore (cosa del resto ben nota da sempre, e trascurata da tutti coloro che, dopo i primi due mesi di guerra, pronosticavano una vittoria dell’Ucraina) e la loro produzione bellica, integrata dalle forniture provenienti dall’Iran e forse da altri Paesi, sembra in grado, almeno finora, di controbilanciare il sostegno occidentale al governo di Kiev.
Tuttavia, anche la Russia appare, se non stremata, almeno fortemente provata dalla guerra: ne è una prova il mancato appoggio ad Assad, decisivo per la fulminea caduta del dittatore siriano. Eppure, la Russia aveva e ha grandi interessi in Siria, a cominciare dalla base di Tartus, che è la sua unica installazione militare sul Mediterraneo. Detto per inciso, questi avvenimenti mostrano una volta di più come sia risibile la filastrocca di tanti politici e giornalisti secondo cui “se diamo il via libera a Putin in Ucraina, allora si impadronirà dell’Europa fino a Lisbona”. Putin non è stato in grado di difendere i propri interessi in Siria, il cui controllo sarebbe stato di vitale importanza per la Russia; non si vede come potrebbe arrivare a Lisbona, o anche solo a Varsavia.
Tornando alle possibilità di negoziato, pare chiaro che una prospettiva, se non di pace, almeno di una tregua di lunga durata, non può consistere in un congelamento della situazione attuale, cioè in un riconoscimento di fatto dell’occupazione di Crimea e Donbass da parte della Russia. Questa, infatti, con pochissime varianti territoriali, era la situazione precedente allo scoppio del conflitto: la Crimea era russa dal 2014, e nel Donbass comandavano i separatisti filorussi. Dunque, Russia e Ucraina si sarebbero violentemente combattute per tre anni per restare al punto di partenza.
Un risultato del genere non potrebbe essere accettato né da Zelensky né da Putin, per lo stesso motivo: indebolirebbe fortemente entrambi sul piano interno, causando probabilmente il loro rovesciamento. Il presidente ucraino, dopo un iniziale periodo in cui sembrava incline al compromesso, testimoniato dai negoziati con la Russia che si erano avviati sotto gli auspici della Turchia, ha via via assunto posizioni sempre più intransigenti, sia perché aizzato da alcune potenze occidentali (in primo luogo, la Gran Bretagna), sia perché, si può ipotizzare, condizionato dalle forze più accesamente nazionaliste, al cui ricatto è esposto. Putin, d’altra parte, non può essere entrato in guerra solo per conquistare dei territori che già di fatto controllava: piuttosto, ciò che l’ha indotto ad aggredire l’Ucraina è stata la paura di trovarsi di fronte al fatto compiuto, cioè l’adesione della stessa Ucraina alla Nato, che, se si fosse verificata, come qualcuno ha osservato, avrebbe con ogni probabilità comportato la sua destituzione da parte delle alte gerarchie militari, o di altri gruppi a lui avversi. Quindi, contrariamente a quanto sostenevano molti dei nostri media nei primi mesi del conflitto, Putin, invadendo l’Ucraina, non ha affatto indebolito la sua posizione all’interno della Russia, anzi l’ha rafforzata.
Lo scopo reale di Putin è quello di impedire per sempre l’ingresso dell’Ucraina nella Nato: ed è questa la vera posta in gioco dell’intero conflitto, esploso nel 2022, ma le cui cause risalgono almeno al 2014, cioè alla cosiddetta “rivoluzione di Euromaidan”. La Russia ha dovuto digerire a malapena l’allargamento della Nato ai Paesi dell’ex patto di Varsavia, e anche a territori già parte dell’Urss, cioè le repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania): e questo nonostante l’accordo, verbale – ma mai smentito – tra Bush padre e Gorbačëv, in base al quale, in cambio dell’assenso sovietico all’unificazione tedesca dopo il crollo del Muro, la Nato non si sarebbe allargata a Est. Putin, e la Russia in generale, ci sentiamo di aggiungere, non potranno mai accettare un’ulteriore estensione dell’Alleanza atlantica (che peraltro ora sembrerebbe mirare anche alla Georgia).
Sul fronte opposto, Zelensky, gli Stati Uniti e gli altri della Nato, dopo quasi tre anni di una guerra che ha messo in ginocchio il Paese (il quale, del resto, non se la passava molto bene neanche prima), non possono accontentarsi del mantenimento di uno status quo che non hanno mai riconosciuto (annessione russa, di fatto, della Crimea e del Donbass).
Il problema fondamentale è comunque un altro: quali garanzie può avere l’Ucraina di non essere nuovamente aggredita dalla Russia? Più o meno contemporaneamente all’intervista di Zelensky a “LeParisien”, si è cominciato a parlare, in Occidente, di una fantomatica “forza di interposizione” che dovrebbe fornire tali garanzie. Ma da chi dovrebbe essere composta? Da una parte, l’Ucraina, gli Stati Uniti e i Paesi Ue pensano certamente ai Paesi Nato; ma una soluzione del genere non sarebbe accettabile per Putin, perché rappresenterebbe di fatto un ingresso della stessa Nato in Ucraina.
In conclusione: il presidente ucraino fa sì appello ai suoi alleati occidentali, e in particolare agli Stati Uniti (si pensi al suo dichiarato proposito di incontrarsi con Trump), perché costringano Putin a sedere al tavolo delle trattative, ma non vuole che questo negoziato si avvii subito, bensì solo quando la Russia si trovi davvero “costretta” a intavolarlo, cioè dopo un capovolgimento dell’attuale situazione sul campo, che la vede prevalere. Questo risultato si può ottenere, tuttavia, a una condizione: che i Paesi occidentali riforniscano l’Ucraina non solo di armi (cosa che ormai si è dimostrata insufficiente), ma anche di uomini. E in quest’ottica si possono interpretare anche le dichiarazioni del segretario generale della Nato, Rutte.
Non si va quindi verso un negoziato, ma verso un ulteriore allargamento del conflitto. C’è un modo per evitarlo? Forse, con l’arresto immediato o quasi dei combattimenti e con il rapido invio di una “forza di interposizione”, la cui composizione non può essere però decisa dalla Nato, ma dall’Onu, e comprenda anche Paesi non schierati contro la Russia, come la Cina e l’India. Ma gli Stati Uniti (con qualunque presidente) e l’Unione europea sarebbero disposti ad accettare una soluzione del genere? C’è da dubitarne.