Cicely Saunders, infermiera, medica e filosofa britannica, fu la prima a capire che – di fronte a un dolore totale come quello di una persona che soffre (fisico, psicologico, sociale, spirituale) – è necessario un approccio globale. Perché di fronte al mistero della sofferenza innocente, la risposta non è un ragionamento, ma una presenza. I principi ispiratori di Saunders corrispondono all’esigenza, oggi universalmente riconosciuta, di tutelare la dignità della persona morente. Tra la vita e la morte, è affiorato un nuovo territorio, il fine-vita, ed è Almodóvar, nel suo ultimo lavoro, a raccontarcene magistralmente il dilemma, insieme alla straordinaria forza dell’amicizia. La stanza accanto è potente, non tanto e non solo per i riferimenti a Virginia Woolf e a James Joyce; lo stupore deriva dal suo modo di raccontare temi drammatici con naturalezza, tanto da farli sembrare la normalità (almeno nel suo immaginario mondo), quando invece nella realtà sono spesso considerati ancora eticamente inaccettabili, poiché in contrasto con certi precetti di origine religiosa di cui la nostra cultura è impregnata.
Il film racconta la drammaticità della morte, e la sublimazione arriva a vette altissime: la stessa morte terrorizza la protagonista, un’elegante e delicata Julianne Moore, per poi diventare fonte di serenità, come in uno degli splendidi dipinti di Hopper. La morte si trasforma in bellezza, in luce e colore, quindi in arte, restituendole valore e dignità – e soprattutto un potere salvifico rispetto alla sofferenza.
Chi ama la vita vuole e deve avere la libertà di decidere quando porvi fine. La morte si confonde con la vita, l’amicizia si confonde con l’amore. È un film molto politico, senza enfasi, ma netto. Emerge da tutte le parti la “nuova antropologia”: quella che ritiene che chiunque chieda aiuto scende di dignità in quanto non più indipendente; e allo stesso modo chi si prende cura di persone fragili scenderebbe anch’esso nei gradi della realizzazione umana. La stanza accanto è invece la storia di una rinascita, o seconda nascita, di una vecchia amicizia. È la storia di una malattia che richiede dignità e riconoscimento. Martha chiede a Ingrid un dono enorme: accompagnarla verso la fine, rendendole più facile la scelta consapevole, attraverso una pillola comprata nei meandri più oscuri di Internet. Grandi conversazioni e vecchi ricordi, divertenti e dolci, che velocemente si mutano in momenti struggenti, in uno splendido chalet di campagna nei pressi di Woodstock. Martha non chiede una badante ma un’amica, che, sia pure in un modo particolare, la vegli.
Equilibri fondamentali per raccontare una storia in contatto profondo con il dolore e la bellezza del mondo, come fossero una cosa sola. La citazione, nel finale, da Gente di Dublino di Joyce ne è il paradigma: “Cade la neve. Cade nel cimitero solitario dove giace sepolto Michael Furey. Cade leggera su tutto l’universo. Cade lenta, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e sui morti”.
La dimensione entropica del capitalismo è messa sotto accusa attraverso il personaggio interpretato da John Turturro, che da ragazzo fu amante di entrambe le donne: uomo di cultura, disilluso ma indignato, si sta inimicando molte persone E sentenzia: “Niente accelera la fine del pianeta più del liberismo”. Forte è l’accusa di ignavia, di assenza di consapevolezza. Sia l’amicizia allo specchio tra Ingrid e Martha, sia il doppio madre-figlia, dimostrano che tutto è intercambiabile, e soprattutto che tutto è reversibile, se lo si vuole davvero. Prima che dopo sia tutto irreversibile.
È quando le due protagoniste partono per il viaggio finale, quello che Martha definisce “una vacanza”, che ritroviamo il migliore Almodóvar, il regista che sa raccontare la tragedia con levità, che nel quotidiano trova la trascendenza, nel lutto l’infinito. Storie di amicizia di donne, e una punteggiatura politica azzeccata, perché non invadente – il Vietnam, il riscaldamento globale, la morte che cambia forma ma insegue le generazioni. E ancora: chi è la Ingrid nella nostra vita?