Iniziando da una loro generica classificazione, fissata nell’ambito della scienza politica classica, e spesso mutuata acriticamente dalla ricerca sociologica, partiti e movimenti sono stati spesso visti come nettamente distinti, se non addirittura opposti gli uni agli altri. Mentre i partiti si sforzano di partecipare al potere politico, l’immagine classica che i movimenti danno di sé è quella di gruppi che intendono rimanere al di fuori dell’arena politica istituzionalizzata e formalizzata. I partiti sono infatti caratterizzati da una struttura interna e da un’organizzazione formale, mentre i movimenti mancano proprio di questa caratteristica. Di solito promettono gerarchie meno verticistiche e burocratizzate, e opportunità di partecipazione più efficaci.
Negli ultimi decenni, però, si sono fatte strada letture che sottolineano come in realtà esistano rapporti meno rigidi e più complessi tra partiti e movimenti. Possono coesistere fianco a fianco in vari gradi di prossimità, o addirittura trasformarsi gli uni negli altri. Per lo più come tappa intermedia in questo processo di trasformazione emergono i cosiddetti “partiti-movimento”, formalmente considerati un partito, ma che hanno ancora un carattere di movimento in termini di organizzazione interna o obiettivi, oppure si definiscono e continuano a immaginarsi a lungo come tali: basterebbe pensare alla traiettoria dei 5 Stelle. Ed è in ogni caso certo che esiste un nuovo dinamismo sotto questo profilo, e i movimenti politici in tutta Europa sono tornati di moda e all’ordine del giorno. Per diverse ragioni: da un lato, i cittadini sono sempre più interessati a nuove forme di partecipazione, anche se per lo più limitate nel tempo e poco impegnative; dall’altro, la realtà dei nuovi movimenti copre uno spettro tematico sempre più ampio, ampliando la vecchia concezione che identificava il movimento sociale con quello operaio. Generalmente intesi come movimenti post-materialisti della classe media, non si concentrano più principalmente sulle preoccupazioni socioeconomiche, ma enfatizzano invece i diritti delle donne, i diritti Lgbtq+ o le questioni ecologiche, e mirano sempre più a cambiamenti che vanno oltre le politiche statali.
A questi movimenti post-materialisti, vanno sommate anche forze dichiaratamente antisistema, riemerse negli ultimi anni. Paradossalmente, nell’azione di questi movimenti antisistema non c’è tanto la finalità di rendere la società più plurale e democratica, attraverso la partecipazione dei cittadini; essi esprimono piuttosto un ribellismo diffuso, a volte apertamente ostile alle istituzioni, che non trova necessariamente un approdo nei partiti tradizionali e nella forma partito, e che mostra caratteristiche più destituenti che costituenti – basterebbe pensare alla vicenda dei “gilet gialli” in Francia… Così come esiste una nuova ambiguità di movimenti che non sempre è possibile ricondurre agli ambiti classici della sinistra e della destra, com’è avvenuto per il movimento ambientalista. Questo, pur senza negare loro il potere di cambiare le cose, e un potenziale di pressione sulle istituzioni, è un fenomeno che diviene particolarmente evidente quando i movimenti stessi entrano direttamente o indirettamente nella competizione politica, come avvenuto appunto in Francia negli ultimi anni.
La ricerca ha sempre insistito sul fatto che i movimenti sociali possono essere intesi come agenti di cambiamento, attori collettivi, reti, opinione pubblica, o come sistemi di auto-emancipazione più o meno retorica. Secondo una definizione classica, i movimenti sociali sono quindi da intendersi come una “rete di interazioni informali tra una pluralità di individui, gruppi e/o organizzazioni, impegnati in un conflitto politico o culturale, sulla base di un’identità collettiva condivisa” (Diani). Se si sta a una simile definizione, che implica un rifiuto della commistione tra prospettive normative ed empiriche, divengono inutili i dibattiti in ambito politologico sulla questione se sia il caso che anche la protesta di estrema destra o quella violenta debbano essere fatte rientrare in un tentativo di comprensione della “società civile”, ma i diversi attori collettivi di protesta, quali ne siano gli intenti e le forme, devono essere compresi con gli stessi strumenti teorici e metodologici.
Per questo, soprattutto in Germania, l’attivismo di estrema destra è ora oggetto di un crescente interesse di ricerca, e l’attenzione si concentra su Alternative für Deutschland, che può essere considerato, almeno in parte, il caso più eclatante di un partito “orientato al movimento”, non da ultimo per il suo comportamento non collaborativo e provocatorio nelle sue uscite parlamentari; d’altra parte, si tratta di una prospettiva che corrisponde anche a quella che è la realtà di altri contesti: nei Paesi dell’Europa centrale e orientale, da tempo la protesta di strada non ha necessariamente connotazioni di sinistra. Ma questa nuova fluidità dei movimenti sociali, il loro proporsi polimorfo e cangiante, in quale modo interagisce con i partiti storicamente strutturatisi? In che modo le istanze di partecipazione e conflitto dialogano con i grandi partiti di massa? In che modo i movimenti divengono partiti-movimento o si trasformano in partiti tradizionali?
Il legame con i movimenti va per lo più rintracciato nei programmi dei partiti stessi. Anche l’organizzazione interna del partito, così come definita nei suoi statuti, rivela una diffidenza tipica del movimento verso la concentrazione del potere e il timore delle tendenze oligarchiche. Tanto più forti quanto più il movimento da cui nasce il partito nuovo si presenta consapevolmente come un movimento controcorrente rispetto ai partiti consolidati e al sistema di potere politico, e si rivolge quindi a una realtà popolare genericamente individuata.
Naturalmente, molto spesso questa sbandierata semi-orizzontalità delle strutture interne è vera più nella autorappresentazione dei partiti-movimento di quanto non lo sia nella realtà, dato che i partiti-movimento non hanno necessariamente una gerarchia più orizzontale o strutture più democratiche rispetto a quelli che fanno parte delle istituzioni consolidate. Per sopravvivere, nella vita politica quotidiana, anch’essi devono spesso adottare un sistema gerarchico. Anzi, accade spesso che il partito-movimento sia caratterizzato da una struttura di potere fortemente verticale in cui c’è poca codeterminazione democratica, e finisca per essere strettamente legato, tanto nel suo sviluppo quanto nel suo destino, alla figura di un leader carismatico.
Per altro verso, se c’è questa tendenza ai partiti-movimento, c’è anche una tendenza dei partiti storici a guardare maggiormente alla loro base e alle aree che non sono coperte dalla loro azione, seguendo peraltro un trend di lungo periodo, che ha visto la storia dei partiti politici segnata da una serie di cesure, di modificazioni e di trasformazioni interne. I partiti di massa non sono stati strutture monolitiche, ma si sono trasformati e rifondati nel tentativo di colmare fratture sociopolitiche, come quelle tra centro e periferia, Stato e Chiesa, settore primario e secondario, lavoratori e proprietari; si sono ripoliticizzati nel processo di democratizzazione ed estensione del suffragio, e le loro innovazioni ne hanno scandito le vicende. Gli attori principali che intorno a essi si sono costituiti hanno interagito tra loro, dando luogo a diverse configurazioni di alleanze tra gruppi sociali. Per esempio, partiti di difesa agraria, etnico-culturale o partiti religiosi, non sono sorti ovunque, ma solo in determinate condizioni e in determinati periodi. Per molti aspetti, invece, il conflitto industriale e la frattura di classe hanno avuto un effetto unificante e standardizzante sui sistemi di partito europei, in quanto ovunque sono sorti con successo dei partiti operai.
Se inoltre si guarda alla vicenda dei partiti sotto il profilo organizzativo, risulta chiaro che il partito politico è un’organizzazione dominata dagli imperativi della sopravvivenza e dell’espansione – direbbe Luhmann –, un sistema che si sviluppa in risposta alle pressioni e alle sfide provenienti dall’ambiente esterno, utilizzando a tal fine le risorse di incentivazione e di mobilitazione che sono proprie della sua struttura originaria.
Le iniziali scelte organizzative, il “modello originario” del partito, assumono dunque una particolare importanza in contesti sociali in rapida trasformazione. Alla classica distinzione di Duverger tra partiti di creazione interna, che hanno origine da élite parlamentari, e partiti di creazione esterna, fondati da gruppi e associazioni attivi nella società e non rappresentati nei parlamenti censitari, si è aggiunta successivamente quella tra un modello di sviluppo organizzativo che procede per penetrazione territoriale, e un modello di sviluppo che procede per diffusione territoriale. Il primo è il risultato di un centro che penetra la periferia territoriale, stimolandone e controllandone gli sviluppi organizzativi. Il secondo corrisponde a un’organizzazione periferica che germina in modo più spontaneo, e che si raccorda con un centro, o genera un centro come coalizione di élite locali dotate di autonomia relativamente ampia.
Oggi va menzionato, oltre ai modelli storici, un modello di partito che si è andato imponendo negli ultimi decenni, il partito “leggero”, un modello che si può definire anche in vari altri modi, a seconda degli aspetti che si decide di privilegiare: partito “mediatico”, “personale”, “leaderistico” – ma forse la definizione più comprensiva è quella che pone l’accento sulla dimensione elitistica ed elettoralistica che ne caratterizza in modo prevalente il profilo. Le crescenti torsioni in senso elitistico-plebiscitario, cui sono sottoposte le nostre democrazie, sembrano indurre in tutti i partiti l’introiezione di modelli organizzativi che a tali torsioni risultano del tutto congruenti e funzionali (Floridia).
Una proposta di partito nuovo, allora, dovrebbe essere in grado di tenere insieme i due corni della crescita delle tensioni sociali, cui non viene data risposta, della presenza di movimenti radicali antisistema le cui istanze vanno ben oltre i movimenti sociali vecchi o “nuovi”. Pur in presenza di necessità organizzative consolidatesi nel tempo, dovrebbero essere capaci di aprirsi a dimensioni partecipative e a realtà autogestite e autorganizzate, dando loro dignità istituzionale. Il partito-movimento, con tutti i suoi limiti e le sue ambiguità, può forse rappresentare un passo in questa direzione.