Sangiuliano ha ucciso Marinetti, che a sua volta voleva uccidere il chiaro di luna. Il folclore pacchiano di una destra, che non riesce a riconoscere la cultura nemmeno quando la governa, ha ridotto la mostra sul futurismo, alla Galleria nazionale di arte moderna a Roma, a un puro episodio di mal costume, in cui le scollacciate disavventure dell’ex ministro hanno fatto da aura all’inaugurazione. Ma l’evento, che rimarrà aperto ancora per qualche mese, merita attenzione. I curatori, con maliziosa abilità, avevano progettato l’esposizione delle opere futuriste come cornice e sfondo a quell’ambizione di egemonia che la destra nutre da sempre, ma di cui non riesce a reggere il peso, nonostante sia oggi al vertice di tutte le istituzioni culturali.
Dopo la mostra di Milano nel 2008, con una giunta di sinistra che aprì, giustamente, il percorso futurista con il celeberrimo Quarto stato di Pelizza da Volpedo, ammiccando a un’ambiguità rivoluzionaria che la corrente di Marinetti indubbiamente aveva, a Roma oggi il testimonial della rappresentazione è diventato Guglielmo Marconi, l’uomo che trasformò per primo la scienza in mercato e il ricercatore in manager.
Un’operazione però non balzana. L’anima di quella comunità di artisti che si avventò contro le tradizioni – peraltro quanto mai fragili e consunte della cultura nostrana di fine Ottocento, esasperati dall’autocompiacimento imitativo di tanti passivi discepoli di Carducci e Nievo, o da un prolungamento verista che ormai poco aveva da dire a un Paese che cercava una strada di progresso – consisteva proprio nella prima trasformazione del sapere scientifico in applicazioni tecnologiche, di cui l’inventore della radio fu il guru. Quel passaggio dai dardeggianti traccianti di luce, che Balla e Boccioni mettevano su tela per smembrare ogni retorico e sdolcinato manierismo superstite, fino alle onde elettromagnetiche con cui Marconi illuminò Sidney, e con cui fece parlare le navi in navigazione con ogni punto dell’orbe, annunciavano un nuovo mondo, dove, accanto alle grandi fabbriche che costituivano l’ossatura delle prime megalopoli, prendeva forma il magma di saperi e talenti che, dopo un altro mezzo secolo, avrebbero avviato la rivoluzione digitale, fondendo appunto scienza, arte e tecnologia.
Un mondo in cui, già all’inizio del Ventesimo secolo, si ricostruivano gerarchie e culture, e soprattutto si ripensavano gli assetti di potere. Siamo in un decennio – diciamo dal 1910 al “biennio rosso” subito dopo la guerra – in cui le pulsioni futuriste fiancheggiavano i sussulti operai, accerchiando una sfibrata borghesia speculativa che già incubava quella paura per i cambiamenti che portò al fascismo.
La mostra si snoda in maniera ammaliante, fra una progressione di opere dei grandi maestri della corrente e citazioni che scandiscono la battaglia delle idee che mise alla berlina accademie e baronie. Stupefacenti le intuizioni del primo Marinetti – gli uomini parleranno con telefoni senza fili – o dell’impertinente Depero – l’arte dell’avvenire sarà prepotentemente pubblicitaria –, figlie non tanto di visioni oniriche, quanto della libertà da ogni vincolo gradualista, tipico di élite che volevano conservare privilegi più che sperimentare innovazioni. Un gusto dirompente e avventuroso, che mostra plasticamente come quel movimento – tale fu anche come presa sociale il futurismo – che nacque rivoluzionario, si ritrovò cospirativo, e finì come reggicoda di un regime reazionario per non aver trovato altra interlocuzione, oltre che a causa delle indubbie, ineffabili debolezze individuali dei suoi protagonisti.
Il percorso della mostra conduce dai prodromi del futurismo, nei primissimi anni del Novecento, fino alla sua irruzione nell’arena culturale e politica che, furbescamente, i curatori hanno simboleggiato, raccogliendo l’input della precedente mostra milanese, accostando il celeberrimo Sole di Pelizza da Volpedo alla Lampada ad arco di Balla, per suggellare quella promiscuità fra il risveglio delle plebi e la fuoriuscita da una bolsa borghesia del nucleo più irrequieto e creativo dell’Italia di inizio secolo. Poi la progressione conduce a constatare come i futuristi guardino costantemente alle frange più scalpitanti della sinistra delle città del Nord. Milano è la Silicon Valley di quella fase, in cui avanguardie operaie, intellettuali socialisti e artisti irriducibili si incontrano e si influenzano, fino al distruttivo dibattito sulla guerra, in cui la sinistra perde ogni capacità di attrazione, scomponendosi rancorosamente intorno alle singole scelte nazionali.
Gramsci, a Torino, come giovane cronista dell’“Avanti!” che si aggirava nei quartieri popolari di una città rigidamente separata per censo, occhieggiava ai nuovi linguaggi, al cui interno intravedeva una potenzialità trasversale, capace di scomporre il campo avverso. Ma i primi consigli di fabbrica si rinserrarono nell’ortodossia leninista, per trovare identità e compattezza, disperdendo l’opportunità di articolare linguaggi diversi nella crisi borghese. Il quadro realizzato da Russolo, intitolato significativamente La rivolta, e gli Stati d’animo di Boccioni, esprimono questa attesa delusa, che spingerà poi il movimento, dopo la guerra, a rifluire nell’accademia di regime, in cui Marinetti trovò un confortevole pensionamento. Gli omaggi al “duce” appaiono all’improvviso e danno un timbro all’intera rassegna.
Le macchine sono però l’emblema di questo irriducibile sovversivismo culturale che faceva interloquire i futuristi con le avanguardie di fabbrica. L’era in cui viviamo – recita il manifesto dell’Arte meccanica – si distinguerà fra tutte, nella storia, per “la divinità che vi impera: la macchina”. L’automazione, che cominciava a ridisegnare nuovi modi di produrre, con una diversa funzione del produttore rispetto al ciclo produttivo, minacciava le rendite di posizione. Gli autori di queste macchine erano ammirati da chi firmava quei quadri o sculture. Automobili, motociclette e idrovolanti simboleggiano le forzature che vedevano artisti e intellettuali contestare ogni quieto vivere.
Ancora Gramsci, con il suo Americanismo e fordismo, coglie l’anomalia di un progresso meccanico che conquista i letterati più incalliti, interrogandosi su come fare partito in un mondo cosi metallico, e con quali culture costruire un “uomo nuovo” in un contesto in cui il capitalismo spinge e non frena le forze produttive. Ma a quel punto l’arte era già diventata coreografia di regime – e la sinistra, sconfitta, era alla macchia.
A insaputa degli stessi organizzatori e patrocinatori dell’evento, pare di poterne ricavare – nel pieno di una svolta tecnologica non meno radicale, in cui è il pensiero stesso a essere automatizzato – come siano le memorie a ridursi rispetto all’espansione del presente, insieme con la certezza che solo rovesciando e scomponendo le tradizioni si possa costringere il capitalismo a squilibrarsi, a rompere le proprie compatibilità uscendo in campo aperto. La dura sconfitta che subimmo, in quello scorcio della storia, ci offre una rivincita, rimettendo al centro della contesa la scienza che diventa riproduzione delle mansioni umane. Siamo a un nuovo faccia a faccia fra i fabbricanti e i fabbricati – come diceva Gramsci –, che oggi possiamo chiamare i calcolanti e i calcolati. Non lasciamo alla destra, anche in questo tornante, il ghigno di chi riesce ad approfittare di un urlo che non gli appartiene. “Uccidete il chiaro di luna”, come ruggiva Marinetti, riguardava più Majakovskij che Mussolini.