La telenovela cui stiamo assistendo, quella tra Conte e Grillo, è destinata a durare. Nonostante, infatti, il vincitore dell’assemblea costituente dei 5 Stelle (e poi delle sue propaggini telematiche) abbia minacciato il perdente di farlo nero – nel senso delle spese processuali e dei danni da pagare, nel caso volesse azzardarsi ad “adire le vie legali”, come si dice, per il possesso del simbolo e così via –, è piuttosto improbabile che il comico se ne stia fermo, e si rassegni a essere stato di fatto cacciato via, avendo anche dovuto rinunciare all’assurdo compenso di trecentomila euro annui che gli veniva dal suo ruolo di “garante”.
Ciò che interessa a noi però è altro. Potranno i 5 Stelle essere un partner affidabile di una coalizione di opposizione all’esecutivo delle destre e co-protagonisti di un eventuale governo di alternativa? Certo, la dichiarazione fatta da Conte alla vigilia dell’ultima votazione online – quella che se ci fossero le elezioni, nella situazione attuale, i 5 Stelle andrebbero da soli – non è incoraggiante (questo significherebbe dare partita vinta a Meloni e soci “a tavolino”, come già accadde nel 2022). Pur sapendo come un’affermazione del genere vada presa con le pinze, perché intervenuta in un momento della polemica con Grillo – che, come si sa, accusa tra le altre cose Conte di subalternità al Pd –, è probabilmente vero che i 5 Stelle andrebbero elettoralmente meglio da soli che in coalizione. Per la semplice ragione che il qualunquismo (“né di destra né di sinistra”) può risultare pagante al fine di attrarre un po’ di voti da un elettorato disaffezionato alle urne.
Ma in ballo non ci sono solo i destini della formazione di Conte: ci sono quelli del Paese. All’epoca del duo Grillo-Casaleggio, con il rifiuto di dare semaforo verde a un possibile governo Bersani, già vedemmo che cosa mai significhi una linea qualunquista – contro la “casta”, per gli eletti che si ritirino dopo due mandati, ecc. Nel migliore dei casi, da questa specie di nullismo politico, viene fuori il governo delle “larghe intese”. Il governo Letta, tra il 2013 e il 2014, con dentro i berlusconiani, fu reso possibile proprio dal “no” opposto dai grillini all’ipotesi Bersani, che avrebbe avuto una compagine ministeriale composta dal Pd e da quello che era allora il gruppo di Vendola. Un po’ diverso il caso del primo governo Conte, quello del patto con la Lega di Salvini, perché lì la responsabilità maggiore della mancata interlocuzione va addebitata a Renzi, che era il segretario del Pd. Si deve invece ancora all’intervento di Grillo, come Conte non manca di rinfacciargli, la formazione del governo Draghi – altre “larghe intese”, nei fatti propedeutiche all’attuale maggioranza parlamentare delle destre –, a cui però l’alternativa sarebbero state le elezioni anticipate.
Una cosa va detta: la rottura definitiva con il qualunquismo originario del movimento del “vaffa” non può passare soltanto attraverso l’autodefinizione contiana di “progressisti indipendenti” (vedi qui). Già “progressisti” è una denominazione vaga (anche Macron si dichiara progressista), e soprattutto “indipendenti” non significa nulla: perché, da una parte, un partito politico è ovviamente indipendente dagli altri, nel senso che ha una sua propria ragion d’essere (ammesso che ce l’abbia), e, dall’altra, volendo sottolineare con questa espressione l’autonomia da qualsiasi campo, si finisce di nuovo nel “né di destra né di sinistra”, che è lo slogan di ogni qualunquismo o populismo che dir si voglia. Senza contare che, com’è noto, chi fa mostra di sottrarsi alla coppia destra/sinistra è più spesso di destra che di sinistra.
L’aspetto paradossale della cosa, tuttavia, è che Conte e i suoi, in mancanza di una loro propria collocazione in Europa, hanno chiesto e ottenuto di fare parte del gruppo parlamentare della Sinistra europea. I “progressisti indipendenti” sono quindi schierati con una sinistra che va dai melenchoniani francesi agli eletti di Sinistra italiana. Il loro trait d’union è di sicuro la comune opposizione alla guerra in Ucraina. Ma quando questa terminerà, liberando la possibile alleanza di centrosinistra dal dilemma se continuare o no a inviare armi all’Ucraina, quale potrà essere l’ulteriore ostacolo a un’aperta e stabile scelta di campo da parte di Conte? Forse la sua simpatia per la tedesca Sahra Wagenknecht e il suo “populismo di sinistra”? Ma quest’ultima non figura forse, coerentemente, tra i “non iscritti” nel parlamento europeo? E allora? Avremo un Conte schierato a sinistra in Europa ma “indipendente” in Italia?