A Damasco si incrociano le strade che arrivano da Kiev e da Gaza. Solo se contestualizziamo il terremoto siriano, inserendolo nel quadro dei due conflitti che stanno insanguinando lo scacchiere al confine fra Balcani e Mediterraneo, possiamo comprendere la convulsa evoluzione che ha portato al collasso il regime di Assad. In pochi giorni, un esercito straccione ha sbaragliato le forze che difendevano il clan del dittatore, attraversando il Paese e arrivando nella capitale quasi senza colpo ferire. I due gendarmi che avevano puntellato la poltrona di Assad in questi anni – russi e iraniani – sono stati risucchiati dai due focolai che li impegnano direttamente: per le truppe putiniane l’Ucraina, per le milizie sciite il gorgo libanese, che sta logorando Hezbollah e risorse degli ayatollah.
Senza il puntello dell’alleanza fra Mosca e Teheran, il regime alauita di Damasco si è sbriciolato, come le statue del fondatore del potere della famiglia Assad abbattute in tutto il Paese. Quello che non è accaduto poco più di dieci anni fa, nel corso della rivolta che aveva fatto tremare la dittatura siriana, oggi è sembrato fin troppo semplice.
La debolezza del fronte russo-iraniano che sosteneva Bashar al-Assad ha coinciso con l’efficacia della paradossale coalizione atlantica, costituita da turchi e americani, con sullo sfondo gli attenti osservatori israeliani, che ha supportato la marcia trionfale del gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham (Organizzazione per la liberazione del Levante, in sigla Hts), insediatosi nella capitale con il suo enigmatico leader, al-Jawlani. Il paradosso di questa formula è fin troppo evidente: l’opportunismo del presidente turco Erdogan, il cinismo degli apparati statunitensi, e l’utilitarismo dei servizi israeliani, si sono trovati al servizio di una scheggia di quel califfato che solo fino a pochi anni fa era il peggiore nemico di tutte e tre queste forze. La regola per cui il nemico del mio nemico è mio amico trova l’applicazione più disinvolta. La caduta di Assad, dunque, è innanzitutto un serio colpo alle ambizioni di potenza globale sia del Cremlino sia del regime teocratico iraniano. I primi rischiano di perdere, presto o tardi, l’appoggio logistico per le basi che nel sud del Paese supportano la flotta russa, che volteggia nel Mediterraneo; i secondi non avranno più gioco facile a usare la Siria per rifornire le milizie di Hezbollah in Libano.
Ma, al di là dei machiavellismi, cosa sarà del Paese, e come si adeguerà al domino mediorientale? Siamo di fronte a una nuova capriola della storia, e mentre Israele maramaldeggia con le sue micidiali sortite contro le popolazioni palestinesi e libanesi sulle colline del Golan, sul fatidico confine con la Siria si affaccia un inedito contendente.
La formazione islamista che ha sbaragliato le truppe siriane è davvero uno strano soldato, potremmo dire, riecheggiando un antico canto rivoluzionario. L’Hts, infatti, si sta dimostrando un originale impasto di populismo arabo e di concezione federale, in grado di armonizzare quel terribile mosaico etnico, religioso e familistico, che fa ribollire ogni società civile dei Paesi islamici. Anche la Siria è un mosaico complesso, dove una maggioranza sunnita è stata dominata da una minoranza sciita, con consistenti oasi druse e curde.
Bin Laden, con al-Qaida, aveva pensato di sottomettere queste contraddizioni mediante una radicalizzazione teologica, imponendo la lettera del Corano. Il leader della fazione che ha prevalso in Siria, al-Jawlani, invece, sta giocando la carta della tolleranza, dell’efficienza amministrativa, e del localismo tribale. Ognuno padrone a casa sua. Una visione in cui la comunità territoriale prevale sulla umma, la comunità coranica. Un’acrobazia teocratica che dobbiamo capire come poi si assesti. Tutto potrebbe risolversi nell’ennesima illusione, e potremmo ritrovarci un regime talebano sulle sponde del Mediterraneo. Ma proprio la lezione del passato potrebbe avere fatto maturare una nuova consapevolezza nelle élite islamiste.
Il contatto con le tecnocrazie turche e con gli apparati americani e israeliani, che non sono mancati, potrebbe avere spinto i vertici del movimento vincente a giocare la carta dell’inclusione. Sarebbe una svolta non solo per le minoranze locali, come i settecentomila drusi e i tre milioni di curdi, che potrebbero trovare in una nuova Siria federale la base nazionale che è sempre mancata, ma anche per lo stesso mondo arabo, che si confronterebbe con una cultura che mira a combinare la sharia con il dialogo e la tolleranza. Aprendo la strada a contaminazioni sorprendenti, anche per gli stessi palestinesi che potrebbero avere trovato un partner se non un modello.