La “guerra fredda” del Ventunesimo secolo sta mettendo a dura prova la democrazia già abbastanza fragile nei Paesi dell’Europa dell’Est, sia di alcuni tra questi da tempo membri dell’Unione europea e della Nato, sia di qualcuno che vorrebbe farne parte. Creando così problemi importanti anche nelle democrazie più collaudate e avanzate: vedi Germania, Francia e Italia. Al riguardo, le cronache di questi giorni hanno riferito dell’incredibile annullamento del voto del primo turno delle elezioni presidenziali in Romania, che ha colto di sorpresa non solo la popolazione dell’ex Paese comunista, ma anche politici e opinionisti occidentali di diverso orientamento, tutti preoccupati per una decisone che appare come un vulnus alla democrazia, o una sorta di colpo di Stato.
Ricordiamo quanto è successo: nel pomeriggio del 6 dicembre – dunque due giorni prima del ballottaggio successivo al primo turno del 24 novembre –, la Corte costituzionale rumena annullava il risultato della prima tornata elettorale, che aveva visto l’affermazione di Calin Georgescu, filorusso di estrema destra, contrario agli aiuti militari a Kiev, con il 22,9% dei consensi contro il 19,18% della giornalista e sindaca della piccola città di Câmpulung, Elena Lasconi, del partito di centrodestra Usr (Unione “Salvate la Romania”), europeista, che per soli 2500 voti aveva superato l’altro europeista, il premier uscente di centrosinistra, Marcel Ciolacu, esponente del Partito socialdemocratico al potere da circa trent’anni, che, con il 19,15%, non avrebbe potuto cimentarsi nel ballottaggio previsto domenica scorsa. Al quarto posto, con il 13,9% dei voti, si era piazzato George Simion che guida un partito sovranista filorusso. Quinto, l’ex premier liberale Nicolae Ciuca, con l’8,8% dei voti. Risultati sorprendenti, poiché i sondaggi avevano previsto uno scontro tra Ciolacu e Simion, entrambi usciti di scena. Fino a quando il governo non stabilirà il nuovo appuntamento elettorale, resterà in carica il presidente uscente Klaus Iohannis.
Le ragioni che hanno spinto la Corte costituzionale a prendere la sua decisione trovano riscontro nella declassificazione di documenti prodotti dai servizi di intelligence, da cui risulterebbe che la vittoria al primo turno di Georgescu sarebbe stata favorita da una serie di manipolazioni informatiche orchestrate dall’estero, ovvero dalla Russia. “In parole povere – dice Francesco Magno, storico presso l’Università di Trento, con particolare riferimento alla Romania, ai Balcani e al Caucaso –, Georgescu avrebbe goduto di una manipolazione degli algoritmi della piattaforma social TikTok, che avrebbe favorito la circolazione dei suoi contenuti, simultaneamente limitando al minimo i post e i video degli avversari”.
Ma che cosa è successo esattamente dopo il 24 novembre? Quattro giorni dopo, il capo dello Stato ha convocato il Consiglio supremo di difesa, organo controllato dal parlamento, di cui fanno parte, oltre al presidente della Repubblica e al primo ministro, i ministri della Difesa, degli Interni, della Giustizia, degli Esteri, dell’Economia, delle Finanze, il direttore dei servizi di sicurezza interni, il direttore dei servizi di sicurezza esteri, il capo di stato maggiore dell’esercito e il consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale. Insomma, le massime cariche istituzionali del Paese. “In occasione dell’incontro – dice Magno – i rappresentanti dell’intelligence interna hanno comunicato di avere rilevato una campagna di promozione aggressiva, svolta eludendo la legislazione elettorale nazionale, nonché lo sfruttamento degli algoritmi di una piattaforma social per far aumentare velocemente la popolarità di Calin Georgescu”. Questa grave denuncia avrebbe spinto la Corte all’annullamento di un voto, il cui risultato avrebbe potuto creare seri problemi a un Paese strategicamente importante nello scenario che si è andato determinando dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina.
Tutto questo in un Paese che finora non aveva conosciuto particolari simpatie verso la Russia di Putin. Ma, al di là di TikTok, un’inflazione che viaggia intorno al 4,7% annuo e la stanchezza, del resto non solo tra i rumeni, nei riguardi di un conflitto che sta diventando insopportabile per le tasche degli europei potrebbero avere spinto la popolazione a dirottare il proprio consenso verso formazioni filorusse, come peraltro sta succedendo anche nell’Europa occidentale. Un ingresso della Romania tra i Paesi sovranisti – come l’Ungheria e la Slovacchia – sarebbe un vero grattacapo, visto che da Bucarest transita il grano ucraino e, ancor più, perché a marzo sono iniziati i lavori per trasformare la base Nato Mihail Kogălniceanu sulla costa del Mar Nero, che ospita cinquemila soldati, nella più grande base militare dell’Alleanza atlantica in Europa, destinata a superare per estensione quella di Ramstein, in Germania.
L’interrogativo riguarda ora i prossimi futuri candidati. Georgescu potrebbe fare la fine di Diana Șoșoacă, anch’essa leader populista, esclusa dalla competizione per probabile “intelligenza con il nemico”.Qualora questo scenario venisse confermato – ma l’esclusione di un candidato del 20% potrebbe provocare reazioni imprevedibili –, l’europeista Lasconi, che aveva condannato duramente la decisione della Corte, se la dovrà vedere con Ciolacu, unico soddisfatto dell’annullamento del voto che, come abbiamo detto, lo aveva escluso dal ballottaggio.
È evidente che dietro questo incredibile svolgersi degli eventi c’è qualcosa che non quadra. Al di là di probabili, anzi certe, interferenze, che ora fatalmente passano per via informatica, eliminare i filorussi – cosa che in Occidente non sarebbe possibile –, e lasciare al ballottaggio due “europeisti”, farebbe dormire sonni tranquilli sia a Bruxelles sia a Washington. Ma il dubbio che abbiano forzato un po’ la mano, per usare un eufemismo, è più che lecito, in particolare se consideriamo che, fino a pochi giorni prima del voto, il sistema di intelligence rumeno non aveva ravvisato alcuna criticità.
Del resto, tutto il mondo è paese. Se in Romania, ai confini della legalità, si fanno fuori avversari politici inaffidabili, lo stesso avviene in Georgia, dove circa dieci giorni fa la popolazione ha riempito le piazze di Tbilisi e di altre città dopo la decisione del governo, nato a seguito della vittoria alle elezioni del 26 ottobre (vedi qui) di Sogno georgiano, partito prima europeista ma ora filorusso, di rinviare al 2028 l’avvio dei negoziati di adesione all’Unione. Una scelta speculare a quella europea, che dal canto uso ha rallentato le trattative per l’ingresso della piccola Repubblica caucasica in Europa. Tutto questo mentre il 14 dicembre verrà nominato il nuovo presidente, non più a suffragio diretto ma da un collegio elettorale composto da trecento persone, tra cui centocinquanta deputati del parlamento, membri dei Consigli supremi di Adjara e della Repubblica autonoma dell’Abkhazia “in esilio”, e rappresentanti dell’autogoverno locale. Come conseguenza delle proteste per il presunto mancato riconoscimento dei risultati delle scorse elezioni, i 61 rappresentanti dell’opposizione all’interno di questo organismo, boicotteranno il voto: una scelta che comunque non impedirà il raggiungimento del quorum necessario per eleggere il nuovo capo dello Stato che succederà all’attuale europeista, Salomé Zourabichvili, ultima presidente votata dalla popolazione. Con tutta evidenza, Sogno georgiano la farà da padrone, con un’opposizione che si è ritirata in una sorta di Aventino, non si sa quanto producente.
Anche in Moldavia musica simile, sia pure a parti invertite (vedi qui), con la presidente, Maia Sandu, vincitrice alle ultime elezioni, sostenuta dall’Europa contro il filorusso socialista Alexandr Stoianoglo, ovviamente aiutato da Mosca nella competizione elettorale. A questo punto, è d’obbligo una domanda: se il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca porterà a una fine del conflitto tra Mosca e Kiev (non sappiamo ancora a quali condizioni), che cosa succederà in Europa, in particolare nei Paesi che abbiamo trattato, a quello che sembra a tutti gli effetti un bipolarismo di tipo “bellico”? È probabile che subentri una pacificazione. Ma se a raggiungerla saranno uomini come Trump e Putin per il vecchio continente, che nulla ha fatto per fermare la guerra, ci sarà poco da sorridere.