È durata poco in Siria l’alleanza, se così possiamo chiamarla, tra i gruppi jihadisti della Hayat Tahrir al-Sham (Organizzazione per la liberazione del Levante) e le milizie curde (vedi qui). Sostenute dagli Stati Uniti, queste ultime sono però invise ai turchi – da qui la rottura prevedibilissima del fronte – che considerano l’Ypg e l’Ypj (rispettivamente, Unità di protezione popolare e Unità di protezione delle donne) emanazioni del Pkk (Partito dei lavoratori del Curdistan) del leader Abdullah Ocalan, in carcere in Turchia dal 1997, dopo il fallito tentativo di chiedere asilo politico in Italia. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, tenterà ora di convincere il nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, ad allentare gli aiuti ai curdo-siriani e dunque al Rojava (Amministrazione autonoma della Siria del Nord-est). Si tratta di quasi un terzo della Siria, circa 55.000 chilometri quadrati per cinque milioni di abitanti – un esempio che non fa dormire sonni tranquilli ad Ankara, perché rappresenta un embrione di un possibile, quanto improbabile, futuro Stato curdo.
Il Rojava nasce nel 2015, sull’onda della “primavera siriana” del 2011, e al suo interno vivono anche arabi, assiri, yazidi, turkmeni e armeni. Una sorta di piccolo Stato confederale costituito da tre cantoni (Al Jazeera, Afrin e Kobane) e altre quattro province, che mettono in pratica decisioni prese dal basso attraverso i cosiddetti consigli civili. Istituzioni in cui regna un’assoluta parità di genere, la stessa che vige anche nell’esercito.
“Questo straordinario processo politico – dice Mosè Vernetti, economista dello sviluppo presso la Soas University of London e collaboratore di “Micromega” – nasce in un contesto di estrema difficoltà: la guerra contro il regime di Assad e le milizie sostenute dall’Iran; la guerra contro lo Stato islamico (Isis o Daesh che dir si voglia); e le continue aggressioni dell’esercito della Turchia contro le milizie curde. Subito dopo la sconfitta di Daesh sul territorio, portata avanti in primis dall’esercito di difesa del popolo curdo, sono cominciati gli attacchi e le violenze da parte della Turchia”.
Il principale partito della regione autonoma è il Pyd (Partito dell’unione democratica), strettamente legato al Pkk, e per questo considerato dalla Turchia un’organizzazione terroristica, il cui leader è Saleh Muslim Mohammed. Nata nel 2003, è un’organizzazione con tratti libertari assenti in quell’area geografica. Come dicevamo, dopo il 2011, malgrado l’andamento della rivolta repressa nel sangue, e approfittando del caos che regnava nel Paese, i curdo-siriani annunciavano la propria volontà di autodeterminazione. Scontato sottolineare come la sopravvivenza del progetto Rojava corra molti rischi, che la guerra in corso non fa che aumentare, rendendo più difficili, da un lato, il processo di democratizzazione del Paese e, dall’altro, i già complicati rapporti con gli Stati vicini, al cui interno ci sono altri curdi, in Turchia e in Iran, quest’ultimo preoccupato per il messaggio democratico che arriva dalla Siria del Nord-est – senza contare i rapporti complicati con la regione autonoma del Curdistan iracheno di Mas’ud Barzani e Nechirvan Barzani del Kdp (Partito democratico del Curdistan). Ricordiamo come più volte le formazioni armate del Rojava siano state costrette a cacciare i rappresentanti della filiale siriana del Kdp, i cui guerriglieri, addestrati in Iraq, hanno spesso tentato di tornare in Siria per sfidare il dominio del Pyd proprio dal confine con il Curdistan iracheno.
La guerra che la Turchia ha dichiarato ai curdi ha provocato, nel corso dei decenni, centinaia di migliaia di sfollati: molti di questi sono oggi ospitati nel Rojava. Recentemente, per sfuggire agli attacchi turchi, sono fuggite tra le trecentomila e le quattrocentomila persone, di cui deve farsi carico una realtà piccola come il Rojava, che dispone di risorse molto limitate. Vanno aggiunti gli ostacoli che il presidente siriano Assad pone alla distribuzione degli aiuti, che arrivano direttamente a Damasco. “Probabilmente – scrive Eugenio Dacrema, economista presso l’Early Warning Team, del World Food Programme dell’Onu, e collaboratore dell’Ispi (Istituto studi di politica internazionale) – mai come in questi ultimi anni i curdi sono entrati nel discorso pubblico abituale di così tanti Paesi del mondo. In Italia non se ne parlava con questa intensità dai tempi della diatriba sull’estradizione di Ocalan, leader del Pkk turco rifugiato in Italia, e che il nostro Paese si rifiutava di consegnare ad Ankara. Ma mentre in quell’occasione si trattò di un lampo di pochi mesi, sono ormai anni, dall’ormai leggendaria battaglia di Kobane, che la parola ‘curdi’ ritorna spesso nel vocabolario di giornalisti e commentatori. Come spesso accade – specifica Dacrema – il fatto che se ne parli non vuol dire affatto che si abbia un’idea chiara della complessità che si cela dietro la definizione di popolo curdo”.
Una complessità resa plasticamente evidente appunto dall’esperimento ormai quasi decennale del Rojava, ora messo a dura prova da una guerra che i curdo-siriani devono combattere sia contro i governativi sia contro gli islamisti. C’è da augurarsi che l’Occidente non si dimentichi di loro, e ricordi le foto delle giovani guerrigliere curde in partenza per combattere e sconfiggere l’Isis.