“Pronti allo sciopero”, recita l’inequivocabile striscione davanti alla fabbrica di Zwickau, dove si è avviata l’astensione dal lavoro. Quasi tutta la Volkswagen, nove sedi su dieci, è da lunedì sul piede di guerra. I lavoratori degli stabilimenti tedeschi sono entrati compattamente in sciopero per bloccare i licenziamenti annunciati dalla casa automobilistica, che minaccia di mandare a casa migliaia di operai, di ridurre i salari del 10%, e addirittura di chiudere definitivamente alcune fabbriche. La crisi che attraversa la produzione automobilistica europea sta picchiando duro, e la proprietà sta progettando di scaricare sulla forza lavoro le perdite e il crollo delle vendite.
Il sindacato IG Metall si è mosso subito: per ora ci saranno solo “scioperi di avvertimento”, in genere della durata di un paio d’ore, ma Thorsten Gröger, il principale negoziatore del sindacato dei metalmeccanici con la direzione, ha affermato: “Se sarà necessario, scateneremo la battaglia di contrattazione collettiva più dura che la Volkswagen abbia mai visto”. A Zwickau gli operai hanno interrotto il lavoro per due ore, e si sono spostati verso i cancelli della fabbrica cantando in coro: “Siamo stufi”. Ad aspettarli ai cancelli, per manifestare con loro, c’erano oltre cinquecento dipendenti della fabbrica di motori di Chemnitz, seguiti a mezzogiorno da centocinquanta dipendenti di quella di Dresda.
La notizia dei licenziamenti ha gettato il Paese nello sconcerto: per la prima volta nei suoi 87 anni di vita l’azienda – fondata dai nazisti che volevano produrre una “vettura del popolo” a prezzi abbordabili – vuole chiudere degli stabilimenti. Si parla di almeno tre sedi in bilico – e di liquidare migliaia di posti di lavoro. Il gruppo Volkswagen (di cui fanno parte anche Audi e Porsche) è il principale datore di lavoro in Germania, con circa trecentomila dipendenti nel Paese, di cui circa centoventimila sono coperti da un contratto collettivo di lavoro. Un’industria dell’automobile che è un po’ la spina dorsale della economia tedesca.
La Volkswagen, per parte sua, lamenta di stare lottando con un sensibile indebolimento della domanda dei consumatori in tutta Europa, e risente del costo del passaggio dal motore a combustione interna ai veicoli elettrici, su cui c’è la forte concorrenza cinese. L’azienda ha citato il calo delle vendite, oltre ai maggiori costi di manodopera di energia e materie prime, come motivo chiave del disavanzo, e quale giustificazione di una profonda ristrutturazione dell’apparato produttivo, con il taglio dei costi. I dirigenti della casa hanno affermato che il “peggioramento della situazione economica” richiede “una ristrutturazione radicale”.
Per ora, la IG Metall ha posto fine agli scioperi di avvertimento. Secondo il sindacato, quasi centomila dipendenti hanno partecipato allo sciopero nei due giorni previsti. “I primi scioperi di avvertimento sono stati un segnale assolutamente risoluto da parte dei lavoratori contro i duri piani del Consiglio di amministrazione della Volkswagen”, ha dichiarato Thorsten Gröger, capo negoziatore dell’IG Metall. Gli ha fatto eco, a Wolfsburg, sede storica della Volkswagen, Daniela Cavallo, presidente del consiglio di fabbrica, in pratica la più importante e potente sindacalista della Germania, che ha dichiarato: “Il consiglio di amministrazione ha fallito. La conseguenza è un attacco ai nostri posti di lavoro, sedi e contratti collettivi. Con me non ci saranno chiusure di stabilimenti!”. E ha aggiunto: “Non devono ricadere sui lavoratori gli errori della direzione”. Altre voci, dal sindacato, hanno ricordato i profitti miliardari accumulati dalla proprietà negli ultimi anni, chiedendo che i sacrifici vengano fatti anche da parte padronale. Sembrano bruscamente finiti i tempi della Mitbestimmung, della cogestione e compartecipazione dei lavoratori, che era uno dei fiori all’occhiello della industria tedesca.
Quella della Volkswagen è una crisi delicatissima, perché è il primo datore di lavoro in Germania. E mostra le difficoltà di tutto il settore nella transizione all’auto elettrica, con la competizione internazionale sempre più accesa. La Germania ha costruito fabbriche dimensionate per rifornire un mercato automobilistico europeo di oltre sedici milioni di veicoli, e si trova di fronte a una domanda calata a circa quattordici milioni, secondo quanto ha dichiarato al quotidiano “Welt am Sonntag” il dirigente Thomas Schaefer. Per la Volkswagen, che controlla una quarta parte del mercato, questo vuol dire una perdita netta di oltre cinquecentomila vetture l’anno, e un crollo verticale del fatturato, che peraltro, pur essendo passato da 5,8 miliardi dello scorso anno a poco più di due, rimane però ancora in leggero attivo.
La situazione è arroventata: il prossimo giro di negoziati, che comincerà il prossimo 9 dicembre, deciderà dello sviluppo in direzione di un avvicinamento tra le parti o di una escalation del conflitto. Se non si dovesse trovare un accordo, si tratterebbe del primo grande sciopero dal 2018. Si prepara forse un “inverno caldo” di scioperi, come hanno minacciato i leader sindacali, che hanno accusato i dirigenti della Volkswagen di stare peggiorando la situazione: “La Volkswagen ha stracciato i nostri contratti collettivi”, ha affermato Gröger. Il sindacato ha minacciato uno sciopero di ventiquattr’ore: “Lotteremo con forza per ogni posto di lavoro”, ha detto un dirigente, ricordando che a Zwickau sono già stati tagliati centinaia di posti di lavoro negli ultimi mesi. Si tratta di dipendenti con contratti a tempo determinato, che non sono stati rinnovati. Attualmente il sito conta ancora circa 9.200 dipendenti, senza contare apprendisti e tirocinanti. “Questa vertenza sindacale continuerà finché il Consiglio di amministrazione minaccerà la chiusura degli impianti, i licenziamenti di massa e i tagli salariali”, ha sottolineato il direttore del distretto Dirk Schulze. “Siamo pronti a estendere l’azione industriale a scioperi di ventiquattr’ore e persino a interruzioni del lavoro a tempo indeterminato”, ha dichiarato Thomas Knabel, delegato sindacale della regione di Zwickau, durante la manifestazione.
Sotto il profilo politico, si tratta di un’altra tegola sulla testa del cancelliere Olaf Scholz. I tedeschi voteranno il 23 febbraio, in una tornata elettorale che, come abbiamo precedentemente accennato (vedi qui), dovrebbe fare dell’alleanza di centrodestra Cdu-Csu il gruppo parlamentare più numeroso, a spese dei socialdemocratici, dati in netto calo. Per il partito di Scholz, una campagna elettorale tutta in salita, sullo sfondo non solo dei giganteschi problemi per il tradizionale baluardo dell’industria tedesca, il settore dell’automobile, ma anche della crisi del settore manifatturiero hi-tech tedesco – per non parlare del quadro offerto dalla politica internazionale. Non è difficile immaginare le conseguenze politiche se venissero realmente attuati i licenziamenti di massa annunciati, soprattutto nei Länder dell’Est, dove i socialdemocratici sono già stati ridotti ai minimi termini. Una parte dei loro suffragi, con il riaccendersi del conflitto di classe, potrebbe spostarsi verso forze come il BSW di Sahra Wagenknecht.