Sembrerà strano che “terzogiornale” si occupi di un film cosi chiaramente apolitico, per non dire antipolitico, come Parthenope di Paolo Sorrentino. Ma è il tema stesso – Napoli, un problema così inevitabilmente sociale e politico – che spinge a farlo; e inoltre la postura ormai del tutto estetizzante di un regista che però aveva esordito bene, con L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore, e non aveva poi sbagliato il film su Andreotti (Il divo), sia pure con un approccio più dipietrista o grillino che di sinistra. Già un successivo film su Berlusconi, inutilmente prolisso, incentrato sull’angoscia della morte come cifra per comprendere il personaggio, era parso invece un prodotto tutto sommato nemmeno sgradito a colui che è stato il più nefasto artefice dei mali italiani degli ultimi trent’anni.
La grande bellezza, opera che diede al regista fama internazionale, era un film citazionista al cento per cento, in cui lo stile di Fellini, e la sua idea di una Roma malinconica e barocca, la facevano da padrone. Di più, c’era soltanto il personaggio interpretato da Toni Servillo, una sorta di dandy napoletano (o di “chiattillo”) all’inizio del declino della tarda età, vagamente ispirato alla figura reale dello scrittore Raffaele La Capria. Già qui, però, il momento estetizzante era in primo piano: la dovizia della messinscena appariva un autocompiacimento da cinefilo, non aveva nulla di sostanziale, e lo stesso La Capria veniva frainteso. Sebbene in lui ci fosse infatti, da napoletano di Posillipo, il mito della “bella giornata”, del mare e di Capri, è certo che la profondità del suo rapporto con Napoli e la sua storia non è riducibile a questo: si pensi soltanto alla circostanza che La Capria fu tra gli sceneggiatori di Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, che resta, a distanza di tempo, la descrizione più penetrante di che cosa sia stata la Napoli “laurina” – e, per trasposizione, ancora in parte quella di oggi.
Ecco, Achille Lauro, non il cantante ma il sindaco che distrusse Napoli con la speculazione edilizia (in particolare proprio su quella collina del Vomero abitata dal giovane Sorrentino) negli anni Cinquanta del Novecento, ricompare in Parthenope, ma trasformato in un buon vecchio inoffensivo (interpretato comunque da un eccellente Alfonso Santagata) che tiene a battesimo la città, la cui allegoria dovrebbe essere rappresentata da una modella bella e dallo sguardo malinconicamente inespressivo, chiamata appunto Parthenope. Un personaggio, quello interpretato da Celeste Dalla Porta, del tutto vuoto, il cui mistero è affidato a scarne parole pronunciate con tono pseudo-profondo, che denunciano soltanto il completo fallimento, da parte del regista-sceneggiatore, nello scrivere i dialoghi.
Si potrebbe in proposito parlare di una maniera che è “superficiale eleganza” e “gracile bellezza”. Ma c’è di più e di peggio: le immagini che, talvolta con panoramiche a trecentosessanta gradi, indugiano sugli stessi luoghi al centro della soap opera televisiva Un posto al sole, sono di fattura pubblicitaria, come del resto quelle insistite di Capri, quasi che Sorrentino non fosse mai uscito dal lavoro realizzato per una campagna di Dolce & Gabbana. L’artista prolunga nell’opera la prostituzione del regista.
Napoli non merita questo. Può dirlo chiaramente chi dalla città è fuggito (come del resto esortava a fare proprio il La Capria di Ferito a morte). Se è un paradiso abitato da diavoli, secondo un’iconografia fin troppo abusata, di sicuro non è una città vanesia: afflitto da narcisismo, è solo uno strato di quella sua borghesia spesso connivente con le organizzazioni criminali. Ma la Napoli dell’economia degli “affitti brevi”, ritornata negli ultimi anni una meta turistica, avrà parecchio da rallegrarsi di un film come Parthenope, che ne restituisce e ne porta in giro una rinnovata immagine oleografica.
C’è in Sorrentino – nella costruzione priva di svolgimento drammatico e, nel caso, anche senza personaggi che non siano semplici maschere – ancora una volta una ripresa di Fellini, che realizzava i suoi film attraverso episodi molto debolmente legati tra loro. Sorrentino, di suo, ci mette una qualche crudeltà supplementare, sperimentata già in precedenti film, nella rappresentazione di attrici e belle donne del tempo che fu, demolite dall’invecchiamento e dal ricorso alla chirurgia estetica. È l’ossessione della morte incombente, il tema non superficiale di Sorrentino. In Parthenope a farne le spese è una trasparente imitazione di Sofia Loren che, trasfigurata in una vecchia gloria ormai quasi calva, vomita sui napoletani tutti gli insulti di una persona che dalla città è andata via per cercare fortuna altrove. Un altro personaggio del film, quello del cardinale Tesorone (interpretato da Peppe Lanzetta), custode del culto di San Gennaro e dei suoi gioielli, partecipa di questa stessa angoscia del decadimento fisico e voluttà di morte che Sorrentino deve nutrire nei propri incubi (non si dimentichi che il regista trovò da ragazzo i genitori uccisi da una fuga di gas nella propria abitazione). Ma l’insipienza del personaggio di un professore universitario di antropologia – incredibilmente il mentore di una fulminante carriera accademica della modella Parthenope, che vediamo tuttavia più dedita ai balli che agli studi –, custode di un figlio-mostro degno della fantasia di Carlo Rambaldi, non riesce a essere riscattata nemmeno da uno dei nostri migliori attori come Silvio Orlando.