Che in Italia l’urbanistica non godesse di buona salute era noto da tempo. Demolito lo statuto epistemologico della disciplina, che avrebbe operato in base a una razionalità astratta ispirata a un esprit de géometrie esasperato e, tutto sommato, scarsamente utile rispetto al mutare delle funzioni urbane, tocca ora all’aspetto normativo. Pochi giorni fa è stata votata alla Camera dei deputati una legge (vedi qui) per tentare di sanare i guai dell’edilizia milanese, che contiene una norma ad hoc, appunto chiamata SalvaMilano. Ma da cosa bisogna salvare la ex “capitale morale” del Paese?
Il Comune di Milano e i suoi sindaci, da oltre un decennio, rilasciano audaci autorizzazioni edilizie che permettono di costruire torri, condomini, grattacieli, centri commerciali dove in precedenza esistevano edifici di dimensioni molto più modeste, magazzini, depositi. Questo è potuto avvenire in virtù di una interpretazione molto libera della legge urbanistica nazionale, e dilatando il concetto di ristrutturazione, così da potere sostituire un piccolo volume preesistente con un palazzone, una cascina con un centro commerciale. Ne è conseguito un innalzamento dei valori immobiliari, spacciato dagli amministratori come una conquista, come un passo ufficialmente fatto in nome dell’attrattività della città. Con una prassi progressivamente invalsa nell’uso, sono state realizzate importanti trasformazioni di isolati e parti di città, mediante una banale procedura di certificazione con effetto immediato (Scia), quella con cui si autorizza in genere una semplice modifica interna di un appartamento. Questi interventi, prevalentemente demolizioni di edifici preesistenti e di ricostruzione di un nuovo edificio, sono stati considerati alla stregua di ristrutturazioni edilizie, con il vantaggio di ottenere una riduzione fino al 60% degli oneri di urbanizzazione, e una notevole riduzione dei tempi delle procedure.
Come denuncia un documento sottoscritto da alcuni urbanisti del Politecnico di Milano: “Le convenzioni, con i relativi impegni economici, sono state siglate non in giunta – come sarebbe accaduto qualora fossero state esito di procedure urbanistiche – ma nell’ufficio di un notaio, con una scrittura tra imprese e funzionari, come si trattasse di un negozio privato”. Così si è paradossalmente concretizzato il vecchio sogno ultraliberista di una città postmoderna da pensarsi “per singoli edifici”, a scapito di ogni visione d’insieme e nel disprezzo più completo della dimensione collettiva, dello spazio pubblico, senza alcuna considerazione degli impatti ambientali, sociali e sulla qualità di vita degli abitanti. In pratica – prosegue il documento degli urbanisti – si è permessa l’affermazione di un modello di “rigenerazione fai da te”, senza un piano e una ridefinizione dei servizi necessari alle comunità.
I risultati, sotto il profilo sociale, sono ormai di dominio pubblico: espulsione dei ceti medio-bassi dal centro, differenze di reddito tra zone centrali e periferie, ormai di tipo “americano” se non del terzo mondo, prezzi degli immobili e affitti alle stelle, da seimila euro in su a metro quadro, giovani, precari e studenti in fuga. Milano è diventata una macchina che spreme e allontana. Qualcuno ha cominciato a innervosirsi e a denunciare quanto stava accadendo. Ci sono state mobilitazioni di cittadini, segnalazioni e denunce, la magistratura ha avviato delle indagini su un gran numero di progetti, in relazione ai quali sono state ipotizzate responsabilità civili, penali e contabili, creando grande incertezza nel governo della città, imbarazzo politico e ragionevole preoccupazione per i funzionari pubblici e i membri delle commissioni, spesso loro malgrado coinvolti in procedure decise dai dirigenti apicali. Le inchieste in corso sono poco più di una decina, ma circa centottanta gli interventi con caratteristiche analoghe.
Si è diffusa la paura di dovere rendere conto alla giustizia, e l’amministrazione ha quindi provato a cercare di correre ai ripari con vie di uscita tecniche: revisione delle procedure, adeguamento degli oneri e dei costi di costruzione, blocco dell’interlocuzione diretta tra uffici e professionisti. Ma l’appello accorato degli amministratori della città, giunti a pagare lo psicologo per placare le crisi d’ansia dei dipendenti degli uffici coinvolti, ha raggiunto orecchie sensibili nella politica. La nuova legge, amplificando quanto già molte leggi regionali sulla rigenerazioneurbana avevano introdotto, opera una drastica semplificazione, stabilendo che ogni tipo di intervento possa essere in ultima istanza ricondotto alla “ristrutturazione edilizia”. Come notano ancora gli urbanisti del Politecnico, in questo modo “si cancella, di fatto, ogni distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione, tra ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica, vengono resi inutili gli strumenti di accordo tra pubblico e privato per guidare la collocazione dell’edificio nel contesto, per contrattare con le proprietà vicine i nuovi interventi, per collegare il nuovo progetto con la città esistente in modo funzionalmente ed esteticamente congruo”.
Il rischio è quello di una cancellazione completa di quel che un tempo si intendeva con urbanistica, intesa come capacità di controllo e di indirizzo dello sviluppo della città; e se Milano dovesse fare scuola, questo tipo di interventi disinvolti, che fanno passare per “ristrutturazione” la realizzazione ad libitum di costruzioni del tutto nuove, potrebbe diventare presto la norma nell’intero Paese. Il tutto in nome di una sempre più dubbia attrattività, che non guarda solo ai grandi capitali internazionali in cerca di valorizzazione e di opportunità acquisitive, ma strizza l’occhio anche a un modello di vita urbana elitario e riservato ad abitanti ad alto reddito, mediante un’offerta di felicità domestica per popolazioni abbienti, destinate a divenire “il popolo delle nuove torri”, tra apericena e consumi di lusso.
D’altro canto, quello che con grande cinismo va in scena a Milano non è che l’ultimo atto di una vicenda più triste e più ampia. Il Paese è da anni prigioniero di una sorta di autocannibalismo, che trova nel mattone e nella finanziarizzazione della rendita una delle ultime maniere di estrarre valore dalle città, dopo la fine della grande industria, e nell’assenza di produzioni che contino nei settori di punta e nelle tecnologie avanzate. In fondo, il SalvaMilano non è altro che la ratifica di una condizione di arretratezza politica, culturale ed economica che è oggettiva, nei fatti, e di cui ci libereremo molto difficilmente, quali che siano gli sviluppi futuri di tutta la vicenda. Già Platone ammoniva, nella Repubblica, che non si può essere contemporaneamente buoni amministratori e affaristi.