In Uruguay ha vinto di nuovo Pepe Mujica, il “presidente povero” del Paese sudamericano dal 2010 al 2015. A far tornare la sinistra al governo di Montevideo è stato infatti un suo allievo: Yamandú Orsi, di origine italiana, con un nome nativo preispanico, nato a Santa Rosa, nel dipartimento di Canelones, anche lui di origini umili, professore di storia ed esponente della coalizione del Frente amplio. Orsi ha sconfitto con il 49,9% dei consensi il candidato della destra Alvaro Delgado, medico veterinario di origine spagnola, legato al presidente uscente Luis Lacalle Pou, entrambi esponenti del Partido national. Per i due hanno votato rispettivamente 1.196.798 degli aventi diritto contro 1.101.296. Una vittoria di misura in un Paese letteralmente spaccato in due.
Nella patria del grande scrittore Eduardo Galeano, il voto è obbligatorio e alle urne si è recato l’89,4% degli aventi diritto. Al primo turno (vedi qui), era stato Pou ad affermarsi con 445.000 voti in più dell’avversario, che però è riuscito a recuperare il distacco, ottenendo ulteriori 120.000 preferenze rispetto all’esponente nazionalista. Con la sua vittoria, Orsi ha riportato al potere la sinistra che aveva già governato con Tabaré Vázquez, dal 2005 al 2010, e appunto con Mujica. Il nuovo presidente era già stato governatore, dal 2015 al 2024, del dipartimento di Canelones, cinquecentomila abitanti, una regione – un po’ come tutto il Paese – con un’economia basata su piccole attività industriali, agricoltura e allevamenti.
Dicevamo di Mujica. Come l’ex capo dello Stato, Orsi viene dal Movimiento de participación popular, una forza politica fondata nel 1960 dal Movimiento de liberation national Tupamaros, che durante gli anni terribili della dittatura si caratterizzò per azioni di guerriglia urbana, fin quando non terminò l’era delle giunte militari, durata dal giugno del 1973, poco prima del colpo di Stato in Cile, fino al marzo del 1985. Dodici anni caratterizzati da una pesantissima violazione dei diritti umani, che colpì lo stesso Mujica, detenuto e torturato per dodici anni.
Classe 1967, e dunque troppo giovane per conoscere da vicino il dramma della dittatura, Orsi si è imposto in particolare nella capitale e nelle aree più sviluppate del Paese, mentre in quelle rurali la popolazione ha preferito la destra. Orsi si insedierà il 1° marzo, con l’obiettivo di rilanciare un’economia abbastanza ferma – viaggia con una crescita dell’1% –, ridurre le disuguaglianze sociali e la povertà, e combattere il narcotraffico. Il nuovo inquilino di Palazzo Estévez, noto per il suo pragmatismo, potrà farsi forza della maggioranza assoluta che detiene al Senato, mentre alla Camera avrà bisogno di due seggi per poter governare tranquillamente, ma al riguardo l’uomo ha manifestato ottimismo, forte delle sue capacità di mediatore. “Sono favorevole a un dialogo nazionale – ha detto subito Orsi –, ovviamente porteremo avanti la nostra visione, ma sempre ascoltando con attenzione quello che dicono gli altri”.
Insomma, il piccolo Paese sudamericano non conoscerà gli scenari sciagurati che stanno caratterizzando, invece, la vicina Argentina con il presidente Javier Milei alla Casa Rosada, o il Brasile, dove Jair Bolsonaro potrebbe di nuovo minacciare la democrazia alle elezioni del 2026, anche se la magistratura lo ha dichiarato ineleggibile fino al 2030 per abuso di potere e uso distorsivo dei media a fini elettorali – accuse alle quali potrebbe aggiungersi quella di aver favorito il tentativo di colpo di Stato contro l’attuale presidente Lula.
Dicevamo della carriera politica di Orsi. Il buon governo di Canelos – dove ha messo fine a vent’anni di esecutivo della destra – ha fatto dire a Mujica, il primo che Orsi abbia incontrato dopo il successo, che se si è riusciti a governare bene quella regione lo si può fare anche a livello nazionale. Contro Orsi, la destra aveva messo in atto una macchina del fango, al fine di screditarlo e indurlo al ritiro dalla competizione elettorale. Era stato accusato da Romina Papasso, un’attivista della destra, di avere picchiato, nel 2014, Paulla Diaz, una prostituta che lo aveva denunciato. Lui ha negato sempre di avere commesso questo crimine, fino a quando le due non hanno confessato di essersi inventato tutto, finendo così in carcere e rafforzando l’immagine di Orsi.
Con questa vittoria della sinistra, l’Uruguay – uno dei Paesi più stabili dell’America latina, dove regnano le disuguaglianze sociali e la violenza o politica o legata alle bande criminali – viene ad aggiungersi al Brasile, al Cile, alla Colombia, alla Bolivia, all’Honduras, al Messico (non annoveriamo in questa lista il Venezuela di Maduro per ragioni più volte spiegate su “terzogiornale”), ovvero ai Paesi del continente governati da forze progressiste. Una fase che non genera, però, le stesse aspettative della spinta propulsiva del “Rinascimento latinoamericano”, che ebbe inizio nel 1998 per finire nel 2015. L’attuale “onda rosa”, così è stata definita la nuova avanzata democratica, è certamente più debole. Con tutti i “se” e tutti i “ma”, non può avvalersi della spinta del Venezuela del tempo di Hugo Chávez, e vede al governo di Paesi importanti, come il Brasile e il Cile, presidenti di sinistra che non possono avvalersi di maggioranze solide in parlamento, e che solo con difficoltà potranno affermarsi ai prossimi appuntamenti elettorali, in Brasile nel 2026, e nel Paese andino nel novembre 2025 (vedi ancora qui). Vittorie che invece sarebbero essenziali per fare fronte agli Stati Uniti di Trump.