Nella sua spietata e pragmatica logica, Elon Musk ha sintetizzato la sua missione come responsabile della semplificazione nel prossimo governo Trump, dicendo che intende sostituire, nel funzionamento degli apparati pubblici, “le regole con i dati”. Questo dualismo fra regole e dati potrebbe aiutarci a identificare una linea di confine fra destra e sinistra, dando una certa identità complessiva a chi si vuole opporre all’ondata di turbo-liberismo digitale: noi siamo quelli delle regole. E la prima regola è che i dati devono essere comuni e trasparenti, togliendoli dalle mani di chi li vuole usare per gerarchizzare il mondo.
In questa logica, ci troviamo gomito a gomito con i sovranisti della destra al governo. Almeno a parole, anche loro vogliono fissare regole per difendere l’autonomia nazionale. Ma poi, andando a vedere oltre le fanfaronate di Salvini, o i più abili ammiccamenti della presidente del Consiglio, scopriamo che la destra italiana si accoda all’apprendista stregone Elon Musk.
Prendiamo un esempio concreto, subito insabbiato dal governo. Chiediamoci cosa stessero cercando, concretamente, quegli agenti russi che, a Milano e a Roma, miravano alle registrazioni dei circuiti di telecamere di sicurezza in diversi quartieri. Forse ci aiuta a rispondere al quesito la conduzione della guerra israeliana a Gaza.
Come vediamo in molti filmati, gli ultimi bombardamenti sono sempre più ferocemente focalizzati. Sembra che siano dei laser a colpire singoli palazzi che si sbriciolano, lasciando intatti gli edifici attigui. Si tratta di una pianificazione chirurgica del conflitto basato su un sistema di intelligenza artificiale, chiamato Lavander, che permette di elaborare una massa poderosa di dati, sia testuali sia video, per tracciare i movimenti di un ingente numero di bersagli. In questo modo, si geo-referenziano interi quartieri, identificando le residenze dei nemici da eliminare. Avere informazioni sulla disposizione territoriale, e le frequentazioni di singole località, significa potere poi programmare interventi – non necessariamente così distruttivi come a Gaza –, che individuano ogni singolo soggetto che si sta seguendo, collocandolo in una specifica parcella territoriale.
Questa è oggi quella che gli israeliani chiamano Mapam, un acronimo in lingua ebraica, che significa “la guerra fra le guerre”. Come si può leggere in un mio saggio in libreria in questi giorni, Connessi a morte: guerra, media e democrazia nella società della cybersecurity (Donzelli editore), siamo ormai nel pieno di questa guerra fra le guerre, in cui i combattimenti sono alternati a fasi di aggressione digitale, al fine di acquisire dati e informazioni. Al centro della scena c’è la cybersecurity, una tecnicalità che – da puro servizio accessorio – è diventata il cuore del sistema digitale. La posta in palio è quella capacità di interferenza nel senso comune di un Paese avversario, che è oggi la nuova forma di conflitto globale. Si combatte alterando e manipolando l’autonomia di un Paese, la sua sovranità semantica, l’autodeterminazione della propria informazione.
Per questo, è importante intrecciare competenze tecnologiche e visioni geopolitiche, in un confronto trasversale che costringa la politica a un salto di qualità. Osserviamo, per esempio, cosa sta accadendo nello strategico sistema dell’informazione, in quel contesto di testate giornalistiche e servizio pubblico radiotelevisivo, che oggi si trovano a stretto contatto con apparati di sicurezza e vigilanza nella cybersecurity. In particolare, è proprio il mondo dell’informazione che dovrebbe riflettere su questa evoluzione socio-antropologica. Il concetto di separatezza dell’informazione dalle strategie istituzionali, che per molti anni ha guidato la tradizione professionale del giornalismo, oggi deve fare i conti con una dimensione in cui le nuove tecnologie generative stanno dissestando qualsiasi certezza nell’identificazione delle fonti autentiche di una notizia. I giornalisti, più in generale gli operatori dell’informazione, si trovano spalla a spalla con figure ambigue, apparati e saperi protesi a usare l’informazione come un’arma di attacco alla sovranità di un Paese.
Questo ovviamente non significa minimamente che i giornalisti devono rassegnarsi a essere embedded nelle proprie autorità nazionali, oppure che un apparato così complesso e corposo come la Rai debba diventare prolungamento dei sistemi di vigilanza. Ma certamente dobbiamo renderci conto che qualcosa è cambiato, e non tanto per il fatto che siamo in un clima bellico; lo siamo stati in passato, e non sarebbe una novità. La vera sorpresa è che gli strumenti e le categorie dell’informazione della produzione materiale delle notizie oggi coincidono con quella logistica militare, che pianifica la sovversione di intere comunità alterando nominativamente contenuti e senso comune. Esattamente come dispositivi apparentemente più frivoli – Spotify o Netflix, o anche Google – agiscono sulla base di un tappeto di dati circostanziati riguardanti ogni singolo utente, così oggi i gruppi corsari dell’informazione, lavorano sulle attitudini e le visioni individuali di milioni di cittadini.
In questa logica cybersecurity non è solo la difesa delle casseforti dei propri dati, ma anche, e soprattutto, capacità di preservare l’integrità della sfera pubblica, di quella agorà dove ogni cittadino si forma la propria opinione.
Qui troviamo materiale prezioso per un’opposizione senza quartiere a questo governo. Pensiamo a cosa possa significare appaltare i propri dati a gruppi tecnologici esterni, oppure affidare a centri esteri le proprie telecomunicazioni, come si sta pensando di fare con la flotta satellitare Starlink di Musk; o non dotare le proprie infrastrutture di comunicazione di quei saperi e abilità, nella gestione dei linguaggi digitali, costringendoli poi a essere clienti, il che, in questo mercato, significa subalterni a fornitori multinazionali; oppure, ancora, regalare a società come Microsoft e Google la formazione alla programmazione digitale dei nostri bambini, nella scuola dell’obbligo.
Ancora una volta, la destra italiana, che a parole sembra forsennatamente impegnata nella difesa dei sacri confini, si inginocchia dinanzi ai potentati esteri che la dominano. Se davvero, come dice Qiao Liang, un generale cinese autore del saggio L’arco dell’impero, “la guerra è sempre cospirazione”, oggi dobbiamo concluderne che l’autonomia di un Paese si preserva proprio riconoscendo questa cospirazione in tempo di pace, senza complottismi ma anche senza ingenuità.