Il Movimento 5 Stelle è una forza “progressista”, qualunque cosa ciò voglia dire. La parola è vaga; chiaro, invece, è l’esito del voto degli iscritti al termine di un processo costituente voluto da Giuseppe Conte per rispondere alla batosta elettorale delle europee (prima volta sotto il 10% su base nazionale). Il 36,7% ha votato per definirsi “progressisti indipendenti”, il 22,09% per definirsi genericamente progressisti, per l’11,53% i 5 Stelle dovrebbero essere una forza di sinistra, il 26,24% avrebbe preferito “nessun posizionamento politico”, gli astenuti sono stati meno del 4%.
La celebrata defenestrazione del fondatore Beppe Grillo, che ha perso il ruolo statutario di garante per scelta di quasi due terzi dei votanti, è per ora sospesa, avendo lo stesso Grillo optato per un cavillo dello statuto (vecchio) che gli consente di far ripetere la votazione. Ma il quorum è stato raggiunto la prima volta; Conte avrà cura di garantire un’ampia partecipazione anche al voto-bis; e del resto è fallito in prima istanza l’appello all’astensione lanciato da qualcuno dei grillini più fedeli al vecchio capo carismatico. Un esito diverso appare alquanto improbabile.
Nelle diverse opzioni offerte dal complicato referendum su questioni programmatiche e statutarie, si è grosso modo manifestata una maggioranza che oscilla fra il 60 e l’80% decisa a lasciarsi alle spalle i legami col passato: archiviato per sempre il divieto di alleanze (già superato infinite volte nei fatti), archiviato il limite dei due mandati elettivi nelle istituzioni, superati anche i vincoli dell’era Grillo-Casaleggio su tesseramento, sedi, gruppi locali, Conte ha vinto su tutta la linea. Ora ha gli strumenti per fare quello che lui e la larga maggioranza del gruppo dirigente ritiene indispensabile: normalizzare il Movimento, che somiglierà sempre più a un partito come gli altri. E, di conseguenza, nasce malato, dato che sono alcuni decenni che si discute della crisi dei partiti. D’altronde, nessuno ha davvero creduto, né fra i parlamentari né fra gli iscritti, che un tempo si definivano “attivisti”, ma col passare degli anni sono diminuiti di numero e anche diventati meno attivi, alla favola del ritorno alle origini caldeggiato da Grillo fin da quando si è riacceso, l’estate scorsa, il suo scontro con Conte. Una scissione degli “ortodossi”, capeggiati da Grillo, è poco probabile, mancando al fondatore l’energia con la quale quindici anni fa ha lanciato il Movimento (un anno e mezzo dopo la piazza del “vaffa-day”) e la credibilità di leader della ribellione anti-sistema degli orfani della politica, dopo che negli anni ha avallato tre governi diversi, e perfino spacciato Mario Draghi come “grillino” e Roberto Cingolani come “ambientalista”.
Quale Movimento 5 Stelle viene fuori dal percorso che si è concluso con il voto online e con l’evento celebrativo Nova, al palazzo dei Congressi (“una incoronazione di Conte”, secondo una voce non troppo benevola interna al gruppo dirigente allargato, “una costosa pagliacciata”, secondo il punto di vista dei grillini doc)? Conte ha voluto dare un’impronta alquanto eclettica alla kermesse romana: economisti di sinistra e pensatori di destra, femministe, ambientalisti, grandi firme del giornalismo, un solo vero interlocutore politico: quella Sahra Wagenknecht, fuoriuscita dalla Linke tedesca e leader del partito BSW (ne parla qui il nostro Agostino Petrillo), che in fondo è il modello di maggiore successo delle “mani libere” quanto a discorso politico e gestione delle alleanze, anche se, in collegamento con Nova, ha fatto un discorso tutto sommato prudente.
Per chi serba memoria di questi tre lustri di turbolenta vita della creatura che fu di Grillo e del suo sodale, Gianroberto Casaleggio, una lettura paradossale potrebbe essere questa: dall’assemblea viene fuori un Movimento spregiudicato e iper-tattico, come lo avrebbe voluto Luigi Di Maio, capo della scissione draghiana; dai voti degli iscritti un Movimento duramente critico con la Nato e che condanna Israele, come potrebbe piacere a un’altra ex stella dell’era Grillo, Alessandro Di Battista (ora che fa il reporter e l’opinionista ha assunto un posizionamento pacifista e terzomondista); e perfino, nella sua rappresentazione esterna, completamente centrato sul suo leader, che infatti i suoi critici interni più severi considerano un accentratore. Proprio come ai tempi del primo Grillo, anche se oggi l’organizzazione è dotata di una struttura interna più articolata e “normale”, in senso democratico. Una tendenza centripeta che potrebbe rafforzarsi dopo il successo di Conte nella consultazione degli iscritti. Non a caso sono state quasi inesistenti, in queste giornate convulse di scontro, le voci di grossi nomi dell’area contiana che si siano preoccupate di segnalare la necessità di evitare che chi ha sostenuto le posizioni di Grillo si consideri automaticamente fuori.
Per tornare alla premessa identitaria dell’appartenenza al “campo progressista”, la cui approvazione nel voto Conte aveva posto come condizione per rimanere alla guida del Movimento, uno sguardo ai contenuti programmatici del referendum fra gli iscritti 5 Stelle è utile come una sorta di controprova del sentimento dei votanti. Qualche esempio: la proposta di riportare a casa il servizio sanitario nazionale, annullandone la regionalizzazione e riformando il Titolo V della Costituzione (proposta che più antileghista non si potrebbe, ma è lecito dubitare che sarebbe accolta con entusiasmo anche da tutti i potenziali alleati di centrosinistra) ha ricevuto il 93% dei sì; la richiesta di una legge sul fine vita l’89%; la legalizzazione della cannabis l’84%; le case di comunità per il reinserimento dei detenuti che non possono andare ai domiciliari nella parte finale della pena l’81%. Più dubbio il segno politico dell’idea di un esercito europeo, molto in voga di questi tempi, ma agghiacciante se immaginata nel quadro dell’attuale costruzione istituzionale dell’Unione: comica se si immagina la ricerca dell’unanimità dei Paesi membri, mentre ipotetici missili cadono sul continente; inquietante se si riflette sull’ipotesi di affidare l’uso dello strumento militare a istituzioni così articolate, lontane dalla sovranità popolare e da un reale rapporto democratico con gli elettori.
In definitiva, l’unica domanda che ha attraversato il ceto politico nazionale – e l’informazione italiana, che non di rado se ne sente parte integrante – è la seguente: saranno più facili le alleanze con il Pd, con l’Alleanza verdi-sinistra e gli altri eventuali soci del centrosinistra più o meno “largo”? Il rischio è che l’azionista di riferimento della potenziale coalizione alternativa al destra-centro attualmente al governo, ovvero il Pd, pensi che i risultati elettorali deludenti nelle recenti tornate regionali condannino il Movimento ad accodarsi al carro senza fare troppe storie. Tuttavia, il primo sondaggio nazionale, dopo le recenti regionali, ridava i 5 Stelle in doppia cifra.
La vittoria dell’opzione “progressisti indipendenti”, nel voto degli iscritti, mostra un certo grado di insofferenza per questo possibile esito dei rapporti con i partner. E la voce di un certo peso dell’ex sindaca di Torino, Chiara Appendino, che ha fatto appello a definire una “identità forte”, prima delle alleanze, non può essere liquidata come nostalgia dei vecchi tempi. Del resto, lo stesso Conte ha concluso il suo discorso precisando che la politica non ruota solo attorno alle alleanze, e che comunque queste sono “un mezzo” e non “il fine” dell’azione politica di cambiamento. Facile prevedere che i rapporti con il Nazareno rimarranno di più o meno cordiale (a seconda dei momenti) competizione. Prudente evitare di fantasticare: la bozza del patto per il dopo-Meloni non è già in tasca ai contraenti; ci vorrà tempo, molti scontri e tanta intelligenza politica – di tutti gli attori in campo – perché se ne venga a capo.