Alla vigilia del voto di fiducia del parlamento europeo alla nuova Commissione di Ursula von der Leyen, previsto il 27 novembre a Strasburgo, si possono già trarre delle conclusioni sulla nuova situazione che si è determinata, a seguito del laborioso processo delle audizioni di conferma dei commissari designati.
1) Innanzitutto, è cambiata la maggioranza che sostiene von der Leyen: fuori i verdi, veri sconfitti di questa vicenda, e dentro buona parte dei conservatori del gruppo Ecr, a cui appartengono Giorgia Meloni e il suo partito.
2) I tentativi del centrosinistra di scongiurare questa modifica della maggioranza non hanno avuto successo, sebbene il Partito popolare europeo (Ppe) abbia accettato di sottoscrivere un documento che ribadisce le priorità su cui si impegna a “cooperare” con socialisti e liberali.
3) Il Ppe conferma e consolida il suo ruolo centrale ed egemone nel parlamento europeo, dove potrà decidere di volta in volta se votare insieme a socialisti e liberali (“maggioranza Ursula”), o se invece cercare un’alleanza con i conservatori, che attirerebbe anche i voti dei due gruppi di estrema destra, i sovranisti dell’Esn e i “patrioti” (Pfe), contro le posizioni del centrosinistra. È quella che in Italia si chiamerebbe “politica dei due forni”, secondo la storica definizione di Giulio Andreotti.
4) Solo un impegno formale di von der Leyen potrebbe mettere un limite a questa politica opportunistica del Ppe, se dichiarasse che la Commissione non intende accettare eventuali emendamenti del parlamento europeo alle proprie proposte legislative, quando sono appoggiati dall’ultradestra. La Commissione ha un forte peso nel processo legislativo, e può sempre ricorrere, se lo reputa necessario, al ritiro delle proprie proposte.
5) Il momento più adatto per questo impegno sarebbe il discorso che la presidente della Commissione pronuncerà a Strasburgo prima del voto di fiducia della plenaria. Ma si assumerà von der Leyen la responsabilità di contrastare, se sarà necessario, anche iniziative e posizioni del proprio partito, dopo avere assecondato, con una sorta di silenzio-assenso, le manovre del Ppe contro i verdi e l’avvicinamento ai conservatori?
6) Von der Leyen rischia di avere un cospicuo numero di voti in meno (si calcola tra i 40 e i 50) per la fiducia alla sua nuova Commissione, rispetto ai 401 voti che aveva avuto alla sua rielezione per il secondo mandato a luglio, quando i verdi (53 seggi) avevano votato a suo favore. Potrà contare sui voti (24) in più della componente italiana dell’Ecr, che a luglio non l’aveva sostenuta, ma non sui 20 polacchi del Pis, che dovrebbero confermare il loro voto contrario di luglio.
Oltre ai verdi, anche i socialisti francesi (13 seggi), tedeschi (14) e belgi (4) e diversi liberali sono molto critici nei confronti di von der Leyen, e potrebbero votare contro o astenersi. Ma non ci sono grandi rischi: gioca a favore della fiducia la modalità di voto, diversa da quella della maggioranza assoluta (376 voti su 751) che era richiesta a luglio per approvare il secondo mandato: questa volta, basterà che i voti favorevoli espressi siano più di quelli contrari, e le astensioni non giocano contro.
Durante lo svolgimento delle audizioni, la “piattaforma di cooperazione” – firmata nel primo pomeriggio del 20 novembre dai socialisti e democratici (S&D), dai liberali di Renew e dal Ppe – è apparsa determinante per sbloccare, poco prima della mezzanotte dello stesso 20 novembre, il via libera a tutti i membri della nuova Commissione. Lo stallo dei veti incrociati, da parte del Ppe sulla nomina della vicepresidente esecutiva spagnola, la socialista Teresa Ribera, e da parte dei gruppi del centrosinistra S&D e Renew riguardo all’altro vicepresidente esecutivo, l’italiano Raffaele Fitto, di Fratelli d’Italia (gruppo conservatore Ecr), è stato risolto, tuttavia, solo dopo un ulteriore lungo negoziato parallelo, svoltosi tra i coordinatori delle commissioni parlamentari competenti. La soluzione di compromesso è consistita nell’aggiunta di alcune “opinioni di minoranza” del Ppe per Ribera, e di S&D e Renew per Fitto, come allegati alle decisioni formali sul via libera ai due nuovi vicepresidenti esecutivi.
Teresa Ribera sarà dunque vicepresidente esecutiva per la “Transizione pulita, giusta e competitiva”, con in più le competenze specifiche per la Politica di concorrenza. Sarà lei il vero contrappeso, all’interno della Commissione, allo strapotere del Ppe (che ha 15 commissari su 27) e alle sue posizioni sempre più critiche verso il Green Deal. E Raffaele Fitto resterà vicepresidente esecutivo (un ruolo gerarchico che S&D e Renew chiedevano gli fosse tolto, perché lo vedevano come un riconoscimento formale dell’ingresso dell’Ecr nella maggioranza), con il portafoglio della Coesione e delle riforme (il binomio non è casuale: nella nuova politica di coesione, i fondi comunitari saranno erogati a condizione che il Paese beneficiario realizzi determinate riforme, secondo lo stesso metodo usato con il Pnrr).
Via libera anche al secondo mandato per Oliver Varhelyi, il commissario ungherese che sarà responsabile per la Salute e per il benessere degli animali, designato da Viktor Orbán e appartenente all’area politica di estrema destra dei “patrioti”. Ma è l’unico commissario per il quale il parlamento europeo ha chiesto una modifica del portafoglio, togliendogli le competenze per la gestione delle crisi sanitarie (e sui vaccini), per la lotta alla resistenza antimicrobica e per la “salute riproduttiva” (che comprende il diritto all’aborto). Le competenze tolte a lui saranno assegnate (sempre che von der Leyen accetti la richiesta) alla liberale belga Hadja Lahbib, commissaria alla Preparazione e gestione delle crisi e alla parità.
In realtà, né la “piattaforma” della maggioranza Ursula, né gli allegati con i “caveat” per Fitto e Ribera avranno valore vincolante per la nuova Commissione. Nel primo caso, le nove priorità sottoscritte dai tre gruppi, che avevano sostenuto il primo mandato di Ursula von der Leyen nel 2019, non fanno che ricalcare le linee guida in base alle quali la presidente della Commissione è stata rieletta a luglio per il suo secondo mandato. Ma non costituiscono un “programma di coalizione”, perché in nessun punto della piattaforma c’è un impegno dei gruppi firmatari a restare fedeli a quella maggioranza lungo tutta la nuova legislatura europea.
Il termine “piattaforma di cooperazione”, invece di accordo o piattaforma programmatica, indica esattamente questo: che i tre gruppi “convengono di cooperare”, in questa decima legislatura europea, per affrontare “le sfide poste dalla situazione geopolitica”, il “divario di competitività” rispetto alle altre potenze economiche globali (gli Usa e la Cina), le questioni di sicurezza, l’immigrazione, la crisi climatica e le disuguaglianze socio-economiche. Ma nulla vieta al Ppe, in particolare, di fare accordi con le destre e contro il centrosinistra, quando lo riterrà opportuno, sugli emendamenti alle misure legislative che proporrà la Commissione. Per esempio, per far passare la linea “Europa fortezza” nei nuovi provvedimenti sull’immigrazione (come l’annunciata direttiva sui rimpatri), o per snaturare le nuove misure che mancano ancora per completare il Patto verde, o addirittura per fare retromarcia (quando se ne presenterà l’occasione) su parti della legislazione climatica e ambientale già approvata nella scorsa legislatura. Non sono solo ipotesi o speculazioni. Il Ppe ci ha già provato due volte negli ultimi due mesi: in ottobre, quando ha votato e fatto approvare gli emendamenti al bilancio comunitario presentati dai sovranisti di estrema destra (gruppo Esn, dominato dai tedeschi della Afd), volti a consentire di finanziare con fondi Ue muri e barriere contro i migranti alle frontiere (la risoluzione finale, comunque, non è passata). L’altro tentativo, più recente, riguarda il regolamento contro la deforestazione (vedi qui), con gli emendamenti del Ppe appoggiati da tutti i gruppi di destra che miravano a modificare sostanzialmente una legislazione già adottata, invece di limitarsi, come aveva proposto la Commissione, a ritardarne di un anno l’applicazione. In questo caso, gli emendamenti, approvati dal parlamento europeo, sono stati bocciati dalla maggioranza degli Stati membri in Consiglio Ue. Un caso finora più unico che raro, in cui i governi, come hanno riconosciuto Greenpeace e il Wwf, hanno sostenuto posizioni più ambientaliste del parlamento.
Quanto agli allegati con le opinioni di minoranza, non sono condizioni poste per il via libera ai due vicepresidenti esecutivi, ma costituiscono solo una puntualizzazione di quello che il Ppe, da una parte, e i gruppi S&D e Renew, dall’altra, si aspettano rispettivamente da Ribera e da Fitto.
Per quanto riguarda Ribera, la lettera allegata del Ppe al via libera formale le rivolge un appello affinché si impegni “in modo chiaro e inequivocabile a dimettersi immediatamente dal Collegio dei commissari, nel caso in cui vi sia qualsiasi accusa o procedimento legale (legal charge or proceeding)” nei suoi confronti, in relazione ai tragici eventi dell’inondazione di Valencia. Il Partido popular spagnolo, appoggiato dal capogruppo del Ppe Manfred Weber, ha insistito fino alla fine su questo punto: mettere sotto accusa Ribera come ministro della Transizione verde, nel governo di sinistra di Madrid, per sviare l’attenzione dalle responsabilità nella gestione tardiva dell’emergenza da parte delle autorità locali competenti. È noto, infatti, che il presidente della Regione di Valencia, il popolare Carlos Mazón, per oltre dodici ore ha sottovalutato il pericolo, segnalato tempestivamente dalle agenzie governative. A parte l’evidente negazione del principio della presunzione d’innocenza (per dirla in italiano, è come se non ci fosse differenza tra un avviso di garanzia e un rinvio a giudizio, fra essere indagati ed essere incriminati), l’allegato del Ppe non costituisce, comunque, una condizione aggiuntiva rispetto agli obblighi previsti dal Codice di condotta (menzionato nella lettera del Ppe) a cui è sottoposto qualunque commissario europeo, incluso l’obbligo di dimettersi se lo chiede il presidente della Commissione europea (art. 17 del Trattato Ue).
Anche per Fitto, l’allegato al via libera formale, presentato da Renew e S&D, non impone delle condizioni aggiuntive. I due gruppi del centrosinistra affermano di attendersi da Fitto “che sia pienamente indipendente dal suo governo nazionale, come richiedono i Trattati”. Appunto: l’articolo 17 del Trattato Ue, che ogni nuovo commissario deve comunque impegnarsi a rispettare, prevede che “i membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo”. Inoltre, si chiede al vicepresidente esecutivo italiano “che si impegni pienamente ad applicare il meccanismo di condizionalità dello Stato di diritto”, ovvero il blocco dei finanziamenti comunitari, e in particolare dei fondi della politica di coesione, nel caso in cui un Paese membro non rispetti lo Stato di diritto. Ma questo è già un obbligo imposto dalla legislazione europea in vigore, ed è già stato applicato all’Ungheria. Infine, S&D e Renew si aspettano che Fitto si impegni pienamente “a lavorare per il rafforzamento dello Stato di diritto nell’Unione”. Ma si tratta piuttosto di un compito che spetterà al nuovo commissario titolare, appunto, del portafoglio Giustizia e Stato di diritto, il liberale irlandese Michael McGrath.