Lo sciopero generale del 29 novembre prossimo sarà un momento di verifica importante. Nell’invito ai lavoratori di Cgil e Uil a rinunciare alla paga di una giornata intera per protestare contro un governo, che millanta grandi successi in campo occupazionale e nel frattempo prosegue nell’opera di smantellamento del welfare, confluiscono diversi significati, che rendono la giornata di mobilitazione uno sciopero politico.
E non si tratta solo delle definizioni che sono state usate per contestare la scelta dei due sindacati o del ricorso a vecchie formule che distinguono gli scioperi in “economici”, “politici” o “politico-economici”. Ha fatto per esempio molto discutere la polemica tra alcuni rappresentanti del governo Meloni e il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a proposito di quella frase sulla “rivolta sociale”. C’è stato qualcuno che ha minacciato perfino denunce, mentre il leader della Cgil ha avuto buon gioco nel chiarire che la sua espressione non si riferiva, ovviamente, a un’incitazione a mettere le città a ferro e fuoco, né alla negazione delle leggi che regolano dagli anni Novanta le astensioni dal lavoro. D’altra parte, chi conosce anche solo superficialmente la storia del movimento sindacale sa bene che il più importante sindacato italiano non è mai scivolato nella deriva di proteste violente o fini a se stesse, e che nelle sue scelte di lotta ha sempre rispettato le norme di “autoregolamentazione”.
Così come è stato strumentale l’attacco a Landini sulla questione della pace. Il segretario generale, parlando a Bologna, ha infatti spiegato che la mobilitazione di venerdì prossimo avrà anche una connotazione pacifista rispetto ai conflitti in corso, l’Ucraina e soprattutto la Palestina, con la presa di posizione contro i massacri di Israele in Libano e nella striscia di Gaza. I commentatori di destra hanno cercato di mettere Landini in contraddizione: ma come, incita alla rivolta e poi fa il pacifista? L’ennesima polemica sguaiata si è rivolta, però, contro gli stessi commentatori, perché Landini ha spiegato con molta semplicità il filo che lega la mobilitazione sindacale a quella contro la guerra. Il tratto di unione è la presa di coscienza di situazioni insostenibili, e dunque un invito a “non voltarsi dall’altra parte”.
È insostenibile non prendere posizione contro il ritorno della guerra come estensione o forse cancellazione della politica. È insostenibile continuare ad accettare per i lavoratori una condizione di totale subalternità alle scelte e ai comportamenti delle imprese e della pubblica amministrazione, cioè dello Stato, e alle decisioni di un governo che, dicendo di voler abbassare le tasse, favorisce sfacciatamente solo i più ricchi con la “tassa piatta” e quella parte del lavoro autonomo abituata a convivere con l’evasione fiscale (con i condoni e il concordato preventivo). Qual è infatti oggi la condizione reale di chi lavora per vivere? Chi ha ragione tra chi dice che il lavoratore italiano non è mai stato così bene e non ha mai avuto tante opportunità di occupazione, e chi invece sostiene che in migliaia fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, cosicché neppure il lavoro può essere più considerato un’assicurazione contro la povertà?
Per spiegare i motivi dello sciopero la Cgil ha anticipato i risultati di uno studio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio sull’andamento dei salari e sulla comparazione delle retribuzioni italiane con quelle dei Paesi europei più importanti. I risultati fanno impressione. Guardando le dinamiche salariali in una prospettiva storica, si scopre che in Europa l’Italia è l’unico Paese i cui salari si riducono dal 1991. Persino la Spagna, che fino a qualche anno fa stava indietro rispetto alla Germania o alla Francia, ha mostrato segni di ripresa molto importanti: dal 1991 al 2023 le retribuzioni spagnole sono salite di oltre il 9%, mentre in Italia sono scese di oltre il 3%. Francia e Germania hanno fatto segnare addirittura aumenti di 9mila e 10mila euro. Quanto al potere di acquisto, anche qui i numeri sono impietosi: dal 1990 al 2020 in Italia è sceso del 2,9%, rispetto al +18,4% della media Ocse e al +22,6% della media zona euro. Negli ultimi anni, i lavoratori dipendenti italiani non solo sono rimasti al palo, ma hanno perso quote consistenti dei loro redditi. Nella conferenza stampa di presentazione dello sciopero sono state fornite cifre molto evidenti di questa dinamica di “decrescita”.
Cgil e Uil mettono poi in guardia su quello che sta per succedere con la manovra 2025. “Il governo ci infliggerà sette anni di austerità”, spiegano i sindacati che hanno indetto lo sciopero. Si rischia un’ulteriore perdita del potere di acquisto di lavoratori e pensionati, a causa di quella che è stata definita “un’inflazione da profitti”. Presentando i dati della Fondazione Di Vittorio, Landini ha illustrato le dinamiche delle curve che riguardano i salari e quelle che riguardano la crescita degli utili e dei profitti delle imprese. Una quota consistente di ricchezza che, però, non si è tradotta in investimenti produttivi, ma in sontuosi premi in dividendi. Nel frattempo, a dispetto dei riferimenti all’epoca garibaldina, continuano a crescere i rapporti di lavoro precari, il lavoro nero e sommerso; mentre la cifra più evidente della manovra in discussione riguarda un ulteriore indebolimento del welfare pubblico, con tagli a sanità, istruzione, trasporto pubblico, enti locali. Su quella che è diventata di nuovo un’emergenza, cioè la questione abitativa, non è in campo nessuna proposta.
Lo sciopero del 29 sarà dunque politico perché richiede risposte politiche, ma anche perché i gruppi dirigenti di Cgil e Uil hanno deciso di rilanciare la questione dell’alternativa al modello di sviluppo che si è praticato finora. Che ci sia qualcosa di profondo che non funziona, è evidente guardando i dati sull’aumento esponenziale delle diseguaglianze. Inoltre, lo sciopero ha un carattere politico perché deve misurarsi con due problemi giganteschi. Da una parte, l’innovazione necessaria delle forme di lotta in una società che ormai è molto diversa da quella del Novecento e, dall’altra, il misurarsi con la grande trasformazione in corso, anche dal punto di vista dei comportamenti e delle aspettative dei lavoratori. Il sindacato deve misurarsi, e deve essere di stimolo, anche dal punto di vista di quella “liberazione” di cui parlava Bruno Trentin. I segnali ci sono e vanno interpretati. Il più recente, dal punto di vista delle aspettative, è la ricerca commissionata dal “Sole 24ore”, quotidiano della Confindustria, all’ Istituto demoscopico Noto Sondaggi.
Dal sondaggio risulta che il 37% dei 25-34enni, in cerca di occupazione, prenderebbe in considerazione anche una posizione precaria, una condizione invece che non piace ai più giovani, tra cui solo il 16% accetterebbe di lavorare senza garanzie e senza contratti regolari. Smart working, conciliazione tra lavoro e vita privata, sono a quanto pare le parole chiave che fanno parte delle aspettative concrete della cosiddetta “generazione Z”, tanto che quasi il 50% di loro accetterebbe l’ipotesi di una forma flessibile nei tempi e negli spazi lavorativi. Pochi zoomers, dice il sondaggio, vedono il proprio futuro otto ore al giorno in ufficio; chi cerca lavoro tra i giovanissimi vorrebbe uno stipendio fra i 1000 e i 1.500 euro al mese, mentre almeno il 25% dei coetanei già occupati, con soli pochi anni in più sulle spalle, ha accettato una paga inferiore. I sondaggi, com’è noto, hanno i loro limiti e sono discutibili. Ma è certo che i sindacati che hanno deciso di scioperare venerdì prossimo lo fanno perché pensano anche a un “nuovo modello di società”. Sarà dunque necessario e urgente proporre alternative alle manovre finanziarie recessive. Ma non è sufficiente. Per questo lo sciopero di venerdì sarà un importante momento di verifica: non solo dal punto di vista del grado di mobilitazione che riuscirà a ottenere, ma anche da quello degli squarci di futuro che farà balenare.