“Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”, diceva un anno fa Elena Cecchettin, sorella della studentessa di 22 anni uccisa dall’ex fidanzato. E poi, citando gli ultimi versi dell’attivista peruviana Cristina Torres-Cáceres – “se domani tocca a me, voglio essere l’ultima, se domani non torno, brucia tutto” –, la ragazza aveva mandato un messaggio chiaro: mai più una sorella uccisa. Eppure, a un anno di distanza, non solo il programma di educazione sessuo-affettiva nelle scuole, previsto dal ministero dell’Istruzione, non è mai partito, ma il ministro Giuseppe Valditara è riuscito, con un breve videomessaggio, a svilire la lotta di tutte le donne.
Alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin contro la violenza di genere, ha infatti esordito sminuendo la lotta transfemminista a “visione ideologica” che “non mira a risolvere i problemi”. Lui, uomo bianco cisgender di mezza età, ha voluto, ricordando una donna uccisa da un uomo, ridurre a vuota ideologia il filone sociologico e antropologico che vede il patriarcato come fattore culturale della nostra società. Non contento, ha sostenuto che il patriarcato “come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975”. Come se il fascismo non esistesse più perché il partito è stato sciolto, o come se non ci fosse più la corruzione dopo la legge sulla trasparenza.
Al pari degli altri fenomeni, anche la struttura di discriminazione e oppressione, che per millenni ha storicamente favorito il privilegio maschile, ha cambiato forma seguendo i tempi e le generazioni, plasmando la nostra società. Il ministro non solo si dimostra incapace di riconoscere il carattere strutturale e sistemico del patriarcato, ma, da uomo, arriva ad annunciarne la fine, all’inaugurazione della Fondazione per una ragazza brutalmente uccisa. Una dichiarazione che rivela una grande ignoranza.
Secondo Friedrich Engels il patriarcato era “il primo sistema di dominio che stabiliva la sconfitta storica mondiale del sesso femminile”, un sistema politico di distribuzione ineguale del potere. Se oggi le donne possono votare, vivere autonomamente, ereditare, lavorare, denunciare una violenza e ottenere posizioni di rilievo (come per esempio essere presidenti del Consiglio!), è grazie alla lotta contro il potere costituito. Dal secondo dopoguerra, in Italia, c’è voluto un gran numero di leggi, pretese e sudate, oltre a quella citata dal ministro, per migliorare la condizione della donna. La legge sul delitto d’onore, per fare un esempio, è stata abrogata solo nel 1981. E non scordiamoci che, fino a neanche trent’anni fa, lo stupro veniva considerato crimine contro la moralità e il buoncostume, non contro la persona (legge n. 66 del 1996).
Molte sono state le conquiste, eppure il patriarcato ha mutato di forma ma è rimasto, anche introiettato. A volte sono le stesse donne, che per ottenere potere, mimano il modello di predominio maschile, l’unico che conoscano. Nella cultura, nella politica, il potere è ancora in giacca e cravatta, è ancora del “presidente”, ancora “uomo”, e non si cancella con una legge, ma con il mutamento culturale della società tutta.
Per tornare al videomessaggio, Valditara si è voluto fare promotore di tesi profondamente razziste: “Occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza, in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Nel massimo della strumentalizzazione possibile, anche l’anniversario dell’omicidio di ragazza per mano del suo ex fidanzato bianco, del nord Italia e “perbene”, è diventata l’occasione per gridare all’invasione e alla minaccia dei nostri “valori occidentali”.
In questi anni, il governo Meloni si è più volte distinto per la capacità latentemente violenta di mentire, anche davanti alla più chiara delle evidenze. “Che un rappresentante delle istituzioni assuma un punto di vista negazionista, dando agli immigrati la responsabilità di parte della violenza che caratterizza le culture occidentali è grave”, dicono da Donne in rete contro la violenza: “Se conoscesse i numeri, si renderebbe conto che il violento ha le chiavi di casa”. Oltre all’indegno etnicismo che sta dietro le sue dichiarazioni, c’è una gravissima opera di disinformazione. Secondo i dati dell’ultimo report di Donne in rete contro la violenza, del 2023, gli autori di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica sulle donne, sono nel 72% dei casi italiani. Non solo, ma gli aggressori sono per lo più persone conosciute dalle vittime, ex partner o conviventi (73%).
Solo per ricordare un po’ cos’è l’Italia, uno degli ex presidenti del Consiglio (a cui è stato addirittura recentemente intitolato un aeroporto), è stato processato per frode fiscale e prostituzione minorile. Gli uomini italiani, famosi sul web per il catcalling, non godono di buona fama tra la popolazione femminile straniera. Recentemente, una ragazza danese, che viaggia il mondo da sola, in un reel di Instagram, ha stilato una classifica dei Paesi in cui si è sentita meno sicura: l’Italia era in uno dei primi posti.
Invece di gridare allo straniero, insultando la memoria delle donne uccise da italiani, il ministro avrebbe dovuto giustificarsi per non aver portato avanti le misure promesse un anno fa. A dieci giorni dall’omicidio Cecchettin, infatti, Valditara aveva annunciato un provvedimento per prevenire la violenza maschile sulle donne: il programma “Educare alle relazioni”. Criticato già per la sua pochezza rispetto agli standard europei, il programma comprendeva una serie di incontri nelle scuole, per creare “gruppi di discussione e di autoconsapevolezza per riflettere su temi come il rispetto dell’altro, la costruzione di relazioni affettive, la percezione di genere e gli stereotipi”. Nonostante fossero inclusi nella direttiva ministeriale n. 83 del novembre 2023, gli incontri non si sono mai tenuti. L’Agedo e le Famiglie arcobaleno hanno denunciato che il Fonangs – il forum delle associazioni di genitori che avrebbe dovuto coordinare il progetto – “non è stato mai convocato, nonostante i nostri solleciti”. Negli ultimi giorni, una raccolta di firme della Rete degli studenti medi ha chiesto l’introduzione di un’educazione sessuale e affettiva in tutte le scuole. In Europa l’Italia è rimasta sola con Bulgaria, Cipro, Lituania e Romania, a non avere un programma unificato di educazione sessuale in nessuno dei cicli scolastici.
Nel frattempo, a un anno dal femminicidio che ha scosso l’opinione pubblica, sono state uccise 113 donne: una ogni tre giorni, quasi tutte ammazzate in famiglia o tra gli affetti, 62 da mariti o ex partner (dati aggiornati all’8 novembre 2024). Per citarne una, Aurora Tila aveva solo 13 anni quando, a fine ottobre, è stata uccisa dal suo ex fidanzato quindicenne, che non accettava la fine della relazione e la perseguitava.
In Italia, i dati Istat indicano che il 31,5% delle donne ha subìto, nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Si conferma anche il fenomeno dell’under reporting: i tre quarti delle vittime non denunciano la violenza subita alle autorità competenti (il 70,9%), e i motivi della mancata denuncia si devono principalmente alla paura della reazione del violento (28,2%). I numeri mostrano il sistema in cui viviamo. In vista della mobilitazione transfemminista del 23 novembre e della giornata contro la violenza sulle donne il 25, bisogna impegnarsi perché cambi. Per tutte quelle che non possono più farlo.