Le parole di papa Francesco, pubblicate nel suo libro sul Giubileo da poco uscito nelle librerie, circa la necessità di indagare se ciò che sta accadendo a Gaza si possa configurare come genocidio, hanno suscitato, fin dalla loro anticipazione in esclusiva su “La Stampa” del 17 novembre, la pronta e indignata reazione delle autorità israeliane. Tel Aviv infatti nega che un genocidio sia in corso a Gaza; afferma che ciò che compie è solo la conseguenza del proprio diritto alla difesa. Da parte sua, il capo della comunità ebraica europea ha invitato Francesco a una maggiore attenzione nell’uso della parola “genocidio”.
In Italia le parole del papa sono state disapprovate dalla scrittrice sopravvissuta all’Olocausto, Edith Bruck, che in dichiarazioni riprese da diversi quotidiani, come il “Corriere della sera” di lunedì 18 novembre, definisce quello che sta succedendo a Gaza non un genocidio, quanto piuttosto “una tragedia”. “Una tragedia che ci riguarda tutti. Ma non si sta distruggendo il popolo palestinese. Questa è una cosa che vuol fare Hamas”. Rimprovera inoltre Francesco per avere usato la parola “genocidio” con troppa facilità: “I genocidi sono altri”. Concede quello degli armeni, e “genocidio sono stati il milione di bambini bruciati nei forni di Auschwitz, insieme agli altri cinque milioni di ebrei, bruciati sempre nei campi di concentramento”. Secondo Anna Foa, storica e autrice del recente libro Il suicidio di Israele, il dubbio di Francesco è invece legittimo.
Ci risiamo: si sta massacrando non solo a Gaza, ma anche il diritto internazionale, e soprattutto il crimine di genocidio. L’equivoco è nato da quando, il 29 dicembre dello scorso anno, il Sudafrica si è rivolto alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia (vedi qui), da non confondere col Tribunale penale internazionale, per stabilire se l’azione militare israeliana a Gaza si potesse configurare o meno come “intento genocidario”. Fin da subito, l’iniziativa sudafricana è stata commentata come se si trattasse di una disputa puramente politica tra chi, come il governo di Tel Aviv, respingeva seccamente l’accusa, e chi riteneva l’azione del tutto velleitaria, visti i tempi della giustizia internazionale e la mancanza di strumenti per applicare l’eventuale sentenza. Ma si può dire che il significato più profondo della scelta del Sudafrica sia del tutto sfuggito all’opinione pubblica, e anche ai movimenti di solidarietà e per la pace.
Il Sudafrica aveva puntato a vedere riconosciuto l’intento genocidario israeliano e l’emissione di una richiesta di cessate il fuoco immediato. La Corte, nel suo primo giudizio del 26 gennaio di quest’anno (vedi qui), ha rifiutato di pronunciarsi su queste due richieste; ha però offerto immediatamente, all’opinione pubblica e ai movimenti per la pace, potenti argomenti d’azione. Il presupposto è la Convenzione internazionale del 1948, non a caso definita per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
La Corte, infatti, ha chiesto a Israele di prevenire gli atti considerati dalla Convenzione come genocidari: per esempio, l’uccisione di membri della popolazione o il pregiudizio della loro salute fisica e mentale, o l’ostacolo alle nascite. Inoltre, ha chiesto a Tel Aviv di sorvegliare il suo esercito in modo da evitare che compia tali atti. Ha chiesto di prevenire e punire l’incitazione diretta e pubblica a commettere genocidio, di fornire immediatamente servizi di base e l’aiuto umanitario, di prevenire la distruzione delle prove relative alle accuse di genocidio; infine, di fornire rapporti sulle misure prese. La Corte aveva chiarito che queste misure sono obbligatorie per Israele. E in virtù della Convenzione per la prevenzione del genocidio, tutti i membri dell’Onu sono obbligati a prendere misure che prevengano che Israele possa compiere un genocidio.
Si è invece preferito concentrarsi e dividersi sulla questione se fosse o non fosse in atto un genocidio, lasciando da parte tutti gli strumenti che la Convenzione fornisce non solo ai governi ma anche alla società civile, che legittimamente può e deve pretendere dai governi stessi politiche di prevenzione, riguardo alla fornitura di armi, alla cooperazione economica, tecnologica, ecc. Queste misure obbligatorie prescindono dal fatto che sia in corso o meno un genocidio, proprio perché la Convenzione detta quelle misure per prevenirlo, prima ancora di condannarlo.
Poiché la Corte ha stabilito che “esiste un rischio reale e imminente che venga arrecato un danno irreparabile”, indipendentemente dal fatto se Israele abbia o non abbia violato la Convenzione internazionale sul genocidio, si deve agire. Non a caso il Sudafrica si è fatto poi promotore della prima conferenza internazionale contro l’apartheid (vedi qui) al fine di coordinare le possibili azioni per cercare di fermare Israele. Le indicazioni della Corte sono state confermate, con l’ordinanza del 24 maggio (vedi qui), sollecitata ancora una volta dal Sudafrica (vedi qui), in vista dell’offensiva israeliana su Rafah che chiedeva di fermare.
Papa Francesco, molto intelligentemente, non chiede che si condanni un genocidio a Gaza, non ancora accertato da nessuna Corte, ma che si continui a indagare: cosa che la Corte dell’Aia sta peraltro facendo, indipendentemente dalle esortazioni di Francesco. Il genocidio, insomma, va prevenuto e fermato prima, non tanto condannato ex post, quando un popolo è già stato sterminato.
Le dichiarazioni del governo e dell’esercito israeliano, secondo cui non è in atto un genocidio, non hanno quindi politicamente e giuridicamente alcun valore. Quanto finora già affermato dalla Corte basta e avanza per mettere in campo tutti gli strumenti per fermare Israele e per condannarlo, perché non sta rispettando le prescrizioni obbligatorie dettate dalla Corte.
Circa poi la pretesa di Israele di proclamare il suo diritto di difendersi, è chiaro – fin dal primo giorno, dopo il massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas – che anche l’azione armata trova i suoi limiti nel diritto internazionale, mentre, con ogni evidenza, questi limiti sono costantemente violati da Israele.