Ma insomma, l’autonomia regionale differenziata, la “secessione dei ricchi” secondo chi l’ha contrastata in questi anni, è stata affondata o no? Difficile non provare un filo di disagio di fronte a commenti e prese di posizione di politici, giuristi e organi di informazione, all’indomani della pronuncia della Corte costituzionale sulla legge bandiera della Lega e del suo ministro Roberto Calderoli. A chi rimane convinto della necessità di “conoscere per deliberare” – celebre formula che dobbiamo a un liberale come Luigi Einaudi, ma che rappresenta un principio democratico di universale buon senso – provoca un filo di inquietudine leggere contemporaneamente che la legge è stata “bocciata” e che invece “ha superato lo scoglio della Consulta”, che il referendum abrogativo “è superato” su alcuni giornali ma “diventa un rebus” su altri, perché sul tema “i giuristi sono divisi”.
Siamo dinanzi a una fotografia dell’Italia del presente, dopo un trentennio di polarizzazione dello sciagurato sistema maggioritario, nella quale i cittadini, più che soggetti attivi della partecipazione, sono visti come bersaglio passivo delle campagne di propaganda. Può sembrare una notazione sociologica, ma forse rivela invece una precisa strategia delle forze che hanno promosso la legge, in primis la vecchia Lega nordista sopravvissuta all’avventura nazionale di Matteo Salvini, nell’era dello slogan “prima gli italiani”.
Piccolo promemoria: la vicenda non nasce in questa legislatura, e “terzogiornale” se n’è occupato a più riprese negli ultimi anni: per esempio qui, qui e qui . L’economista Gianfranco Viesti ha riassunto efficacemente le puntate precedenti, ricordando il blitz del 2017 del Consiglio regionale del Veneto, che “aveva chiesto di diventare uno Stato sovrano, acquisendo pieni poteri in tutte le politiche pubbliche e trattenendo i 9/10 delle tasse. Una secessione. E invece di contestare pubblicamente questa assurda pretesa il governo Gentiloni, grazie all’azione dei democratici Bonaccini e Bressa, firmava nel febbraio 2018 una pre-intesa con tre Regioni, senza alcuna discussione nel Paese. Tre giorni prima delle elezioni politiche”.
La “riforma”, insomma, non è passata solo per le mani di Calderoli, il creativo leghista già autore della famigerata legge elettorale tramandata alla storia come “porcellum”, e non è stata solo caldeggiata dalle destre; le quali ne hanno fatto più che altro oggetto di scambio, all’interno della coalizione, con altre iniziative identitarie, come il premierato o la resa dei conti con l’ordine giudiziario, quest’ultima la più largamente condivisa tra le forze che sostengono il governo Meloni.
La recente decisione dei giudici delle leggi è stata ampiamente sviscerata sulla stampa nazionale all’indomani dell’annuncio della sentenza (sulla quale, al momento, abbiamo solo la sintetica illustrazione affidata a un comunicato stampa: le motivazioni, mentre scriviamo, non sono state ancora depositate). In sintesi: è pur vero che la legge Calderoli non è stata dichiarata incostituzionale in toto, ma sarebbe sufficiente il richiamo, contenuto nella nota della Consulta, ai “principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio”, per avere un’idea della profondità e dell’estensione dei richiami della Corte.
Nella sentenza annunciata, in ogni caso, è stato bocciato, fra le altre cose, l’aggiornamento dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) attraverso un decreto del presidente del Consiglio dei ministri); il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei Lep sui diritti civili e sociali senza idonei criteri direttivi con la “conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento”; cassata anche la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali; tratto di penna inoltre sulla “facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica”. Di rilievo anche l’avvertimento secondo cui “la Corte ha interpretato in modo costituzionalmente orientato altre previsioni della legge”, come per esempio il fatto che “l’iniziativa legislativa relativa alla legge di differenziazione non va intesa come riservata unicamente al Governo”, e che “la legge di differenziazione non è di mera approvazione dell’intesa (‘prendere o lasciare’) ma implica il potere di emendamento delle Camere; in tal caso l’intesa potrà essere eventualmente rinegoziata”.
Insomma, quello che sembra essere saltato del tutto è l’impianto “agile” della legge Calderoli, che avrebbe dovuto consentire, nell’idea del proponente, una gestione puramente burocratico-governativa delle intese con le Regioni interessate e delle conseguenti ripartizioni di competenze e risorse a loro favore. Doverosa quindi la sottolineatura del costituzionalista Gaetano Azzariti, che su “Repubblica” ha spiegato: “C’è un passaggio del comunicato della Consulta molto significativo, dice che spetta al Parlamento colmare i vuoti ‘in modo da assicurare la piena funzionalità della legge’. Ciò dovrebbe anticipare il fatto che il testo che uscirà dalla sentenza non sarà direttamente applicabile”.
In attesa di conoscere il destino del referendum abrogativo dopo il pesante intervento della Consulta, che ha effettivamente stravolto i contenuti della legge sull’autonomia differenziata, si torna quindi al punto iniziale: quale significato attribuire alla densa cortina fumogena stesa dagli esponenti leghisti, Calderoli in testa, e dai giornali amici delle destre, per minimizzare, se non cancellare dal discorso pubblico, le conseguenze dell’intervento dei giudici costituzionali? Calderoli, investito dalle polemiche (anche per l’invito alle opposizioni a “tacere per sempre”), una volta completato il secondo passaggio parlamentare della sua legge, continua a ostentare sicurezza: se i giudici – ha spiegato a “Repubblica” – “vogliono una fonte di rango primario, una legge del Parlamento, la faremo”.
Finora, in effetti, nel corso della legislatura la maggioranza di destra-centro ha dimostrato una granitica solidità, nonostante le tensioni interne, al momento di portare a casa i risultati delle intese fra i vertici di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Certo, va registrato che tra leghisti e azzurri, sul tema dell’autonomia, continuano le reciproche punzecchiature, e quindi il percorso delle correzioni parlamentari potrebbe non essere dei più scorrevoli. Per capire per quale motivo la batosta non ha spinto il fronte pro-autonomia a più miti consigli, però, non bisogna forse guardare solo agli aspetti politici: certo, per Calderoli e per i ras di Veneto e Lombardia, Luca Zaia e Attilio Fontana, si tratta della battaglia della vita. Ma forse è il caso di domandarsi se sia possibile che il parlamento, sotto la pressione della Lega, adotti modifiche di facciata, insufficienti a recepire tutte le pesanti correzioni necessarie secondo la Corte costituzionale.
Chissà che ad alimentare l’ottimismo di Calderoli e soci non ci sia la circostanza dell’imminente ridefinizione della composizione del collegio giudicante: il parlamento, infatti, a breve dovrà eleggere ben quattro nuovi giudici costituzionali, dopo che sono andati a vuoto i tentativi della maggioranza di nominarne uno solo (e l’indicazione era caduta su Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di Giorgia Meloni, “autore” della riforma costituzionale per l’elezione diretta del presidente del Consiglio). Con un brusco spostamento degli equilibri della Corte, in direzione di una maggiore vicinanza all’area governativa, un nuovo strappo costituzionale sui contenuti dell’autonomia differenziata potrebbe essere stavolta giudicato con maggiore benevolenza. E a quel punto la strategia di Calderoli, oltre che più chiara agli occhi dei cittadini, apparirebbe senz’altro quella vincente.