I tramonti hanno sempre un certo fascino. Sono un momento particolare della giornata e della vita. Ma poi le note romantiche lasciano il posto ad altro: la fine di qualcosa, lo spegnersi del giorno, l’ingresso nella notte. Il Green Deal, quel complesso di riforme con cui l’Unione europea si era data l’obiettivo di diventare, entro il 2050, il primo continente a impatto climatico zero, è al tramonto? L’avvento dell’era Trump sancirà anche la sconfitta delle classi dirigenti europee, che avevano scommesso sulla sostenibilità per rispondere ad anni di proteste dal basso e al ripetersi di emergenze climatiche sempre più frequenti e drammatiche, come quelle avvenute in Spagna e in Emilia-Romagna?
Anche se è ancora presto per rispondere a queste domande, abbiamo già alcuni segnali che sembrano confermare il pessimismo. Non è, per esempio, un caso che uno degli obiettivi delle destre europee e dei popolari sia proprio una spagnola, Teresa Ribera, socialista, ministra della Transizione ecologica in Spagna e vice del premier Pedro Sánchez, ora candidata al posto di vicepresidente dell’esecutivo Ursula von der Leyen 2, con l’incarico di realizzare tutti i progetti legati al Green Deal. Il suo futuro politico è in bilico, anche se non ancora al tramonto. Lo capiremo mercoledì 20 novembre, giorno in cui comparirà davanti al Congresso di Madrid per difendersi dalle accuse dell’opposizione.
Il secondo segnale del possibile tramonto del Green Deal viene da Ovest, com’è normale che sia. La vittoria di Donald Trump condizionerà gli equilibri mondiali, e già sposta il baricentro delle democrazie sempre più condizionate dall’enorme potere di chi detiene la tecnologia e i grandi fondi finanziari. Una delle prime mosse di Trump (forse la prima in assoluto) è stata l’annuncio dell’uscita degli Stati Uniti da tutti gli accordi internazionali sulla lotta al cambiamento climatico, a partire ovviamente da quello di Parigi del 2015. Gli statunitensi si tirano fuori e assumono la guida del negazionismo. Il presidente tycoon, che descrive l’innalzamento del livello dei mari come una grande bufala e comunque come un fenomeno dai tempi biblici, in tutta la sua campagna elettorale non ha fatto altro che sbeffeggiare i pannelli solari e le turbine eoliche. “Abbiamo più oro liquido di qualsiasi altro Paese al mondo”. E ovviamente queste parole si spiegano non solo in base alla conformazione del territorio americano e alle sue risorse, ma anche pensando alle alleanze e alle amicizie del candidato presidente, che ha raccolto più di 75 milioni di dollari tra chi detiene i maggiori interessi petroliferi e del gas, tra cui il miliardario Harold Hamm.
Visti gli stretti rapporti economici e politici con gli Stati Uniti, l’Europa è direttamente coinvolta in questo cambio di passo. Ma per ora, a parte gli allarmi diventati quasi un Sos di Mario Draghi, la politica dell’Unione sembra spiazzata, muta. Alla finestra.
Un terzo segnale del tramonto per le politiche ambientali lo sentiamo risuonare in casa. Nello stesso momento in cui i governi di destra rilanciano la crociata contro l’ambientalismo e contro i troppi lacci e lacciuoli imposti da Bruxelles alla libera (?) impresa, dal governo italiano, in particolare da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, arrivano solo applausi per Trump e ovazioni per Elon Musk, dimenticando che l’uomo più ricco del pianeta, anche se fa affari con le auto elettriche marchiate Tesla, non ha alcuna coscienza ecologica. Il riscaldamento globale? “Abbiamo ancora un bel po’ di tempo, non dobbiamo affrettarci”, ha detto ad agosto il genio prescelto da Trump. “Se, non so, tra cinquanta o cento anni da oggi, saremo per lo più sostenibili, penso che probabilmente andrà bene”. Musk, che piace tanto alla destra negazionista, non è portatore di nessuna ideologia progressista, al contrario di ciò che sostiene qualche anima bella che lo indica come una delle possibili contraddizioni interne al nuovo potere americano. Per quanto ci riguarda, non vediamo alcuna contraddizione. Musk rappresenta l’esempio più chiaro del nuovo processo di accumulazione capitalistica e di tendenza all’oligopolio e all’autocrazia. L’uso estremo della tecnologia per un nuovo modello di potere. La sua Tesla non è stata costruita per salvare il pianeta, ma per conquistare quote di mercato e annientare i produttori europei che sono “protetti” (parzialmente) solo dal lato della Cina.
In questo quadro, l’Europa rischia davvero tanto. Il quarto segnale riguarda infatti la virata a destra di una Ursula von der Leyen, che appare in grande difficoltà non solo per la conferma dei commissari Fitto e Ribera. La classe dirigente europea rischia di fare l’opposto di quello che si dovrebbe. Invece di insistere sulla strada della transizione verso un’economia sostenibile (o meno insostenibile), si prepara a rilanciare il nucleare e a mettere risorse sempre più pesanti sul riarmo. Una questione che sarebbe molto interessante approfondire anche per capire a che punto è giunto quel processo di cambiamento dei meccanismi di accumulazione e di concentrazione del capitale di cui già parlava Marx.
Nel frattempo, registriamo altri due segnali di un possibile addio alle speranze di cambiamento delle politiche: la direttiva europea sulle “case green” e le misure contro l’inquinamento generato dall’agricoltura industriale e dall’allevamento intensivo. Su questi settori, abbiamo avuto un segnale chiaro molto prima della vittoria di Trump. Piegandosi alla protesta dei trattori, l’Europa ha concesso la proroga per l’eliminazione dei pesticidi, concedendo una vittoria alle lobby dei grandi produttori agricoli e ovviamente all’industria chimica brown.
L’altra partita in corso è quella delle cosiddette “case green”. Secondo la direttiva approvata dal parlamento europeo, dal 2025 sarebbe dovuto scattare lo stop agli incentivi per le caldaie a gas, e nel 2026 l’attivazione del piano di ristrutturazione. Ma ora che le risorse pubbliche si stanno progressivamente spostando verso l’industria della Difesa (o della guerra), dove si troveranno i soldi per mettere il cappotto ai palazzi, cambiare le vecchie caldaie inquinanti e coprire i nostri tetti di pannelli solari?
Anche l’altra grande scadenza, il 2035, è rimessa in discussione. Per quell’anno, l’Europa aveva previsto la fine della produzione e della commercializzazione dei veicoli a propulsione termica interna. Insomma, basta con benzina e gasolio. Dato che se ne parla da anni, in vista di quel traguardo, le imprese hanno cominciato ad attrezzarsi, come si vede dalla proliferazione di modelli ibridi o totalmente elettrici. Difficile dire se si tratta di un esempio di capitale produttivo meno conservatore delle sue organizzazioni rappresentative, come sta succedendo in Norvegia, dove, come ci spiega Vincenzo Comito, storico della finanza ed esperto della transizione, il 96% delle automobili circolanti sono elettriche ed è previsto che, nel 2025, tutti i veicoli saranno elettrici. Da noi, con la nuova dirigenza della Confindustria in mano a Orsini, l’aria è di altro genere: attacchi continui alle direttive europee e muro contro la transizione ambientale e produttiva. E qui altri applausi dalle poltrone in prima fila del governo Meloni. Così, nel frattempo, si sommano ritardi a ritardi.
Sono in ballo scelte industriali strategiche, ma anche scelte politiche decisive. Il geologo Mario Tozzi, che da anni combatte le politiche che sovvenzionano la produzione di combustibili fossili, ha lanciato un appello all’Unione europea: “Non abbandonate il Green Deal”. Sarebbe l’ultima speranza per contrastare il disastro climatico, che si è palesato in varie parti del mondo e che mette in gioco il futuro del pianeta, mentre destre e popolari si alleano per il rinvio della legge sulla deforestazione (vedi qui). Le istituzioni europee però non ce la potranno fare da sole. Né basteranno le encicliche di papa Francesco. Per cambiare gli assetti attuali di potere, non basta scrivere le regole. Non basteranno il parlamento e la Commissione. Serve il coinvolgimento attivo dei cittadini e di tutta quella parte dell’economia che punta sulla sostenibilità. Una chiamata alla responsabilità anche per i lavoratori. Tanti anni fa si era arrivati a parlare, nel movimento sindacale italiano, di “riconversione industriale”. Qualcosa c’è stata, anche alcuni casi importanti, ma forse i giovani che oggi scendono in piazza per il clima non hanno mai sentito quella parola.