Con un voto della plenaria del parlamento europeo, il 14 novembre a Bruxelles, è cominciato il tentativo, sostenuto da una maggioranza inedita del Ppe con i conservatori e l’estrema destra, di innestare la marcia indietro sul Patto verde europeo; e non solo frenando sulla legislazione, che non è ancora stata adottata, ma rimettendo mano alle misure legislative già approvate e in vigore, con l’obiettivo di annacquarle e svuotarle. Il voto, nel caso specifico, ha riguardato il regolamento europeo contro la cosiddetta “deforestazione importata”, già approvato definitivamente dal Consiglio Ue il 16 maggio 2023, ed entrato in vigore dal 29 giugno dello stesso anno.
Il regolamento impone un “dovere di diligenza” a tutti gli operatori e commercianti che immettano nel mercato dell’Unione, o ne esportino fuori, alcune materie prime (olio di palma, prodotti bovini, legno, caffè, cacao, gomma e soia), in modo da garantire che non provengano da terreni sottoposti a deforestazione. Le norme si applicano anche a una serie di prodotti derivati: cioccolato, oggetti di arredamento, carta stampata e cosmetici a base di olio di palma. Gli operatori saranno tenuti a garantire la tracciabilità delle materie prime che acquistano e utilizzano, per accertarne la provenienza.
Le norme vincolanti del regolamento, nella sua versione originaria, dovevano essere applicate dal 30 dicembre 2024 alle imprese e agli importatori di grandi e medie dimensioni, e, sei mesi dopo, dal 30 giugno 2025, alle piccole e microimprese. Ma, rispondendo soprattutto alle pressioni di diversi Paesi esportatori extraeuropei, il 2 ottobre scorso la Commissione europea ha presentato una proposta legislativa, che prevede di ritardare di un anno esatto queste due scadenze, portandole rispettivamente a fine 2025 e a metà 2026. L’obiettivo dichiarato della Commissione è quello di rendere le nuove norme applicabili in modo più agevole ed efficace da parte degli operatori di mercato. La proposta di rinvio, nella sua introduzione, sottolinea quattro volte l’intenzione della Commissione di limitarsi a modificare le scadenze di applicazione, senza toccare alcuna norma sostanziale del regolamento. E il Consiglio Ue ha già approvato, in prima lettura, il rinvio di un anno proposto, senza richiedere alcuna altra modifica.
Ma quando la proposta di rinvio è arrivata al parlamento europeo, il Ppe ha proposto quindici emendamenti che chiedevano di rimettere mano alla sostanza del regolamento già in vigore. Le modifiche chieste erano sostanzialmente tre: raddoppiare a due anni il rinvio degli obblighi per le imprese, escludere da questi obblighi l’intero settore del commercio (ciò che avrebbe svuotato le nuove norme, e creato confusione nella loro applicazione) e definire una nuova categoria di Paesi “a rischio insignificante di deforestazione”, a cui verrebbe consentito di esportare nell’Unione senza richiedere alle imprese europee di effettuare i controlli che sono imposti per le importazioni dai Paesi delle altre categorie già previste, a rischio “basso”, “standard” o “alto”.
Poco prima del voto, il Ppe ha ritirato sei dei quindici emendamenti inizialmente proposti: quelli riguardanti l’esenzione per il settore del commercio e il raddoppio dei tempi di rinvio. Sono rimasti solo gli emendamenti sull’introduzione della nuova categoria di Paesi a “rischio zero” di deforestazione. La decisione di ritirare i sei emendamenti è stata presa a seguito di un accordo tra i negoziatori del Ppe e quelli dei liberali del gruppo Renew, in cambio dell’impegno di questi ultimi a non votare contro la risoluzione finale, qualunque fosse stato l’esito del voto sugli emendamenti restanti. Questo compromesso, accettato dai popolari a causa dell’incertezza sulla maggioranza nel voto finale (se non vi fosse stata l’astensione promessa dai liberali), ha consentito di evitare il peggio, ma non di evitare il vulnus alla legislazione europea, che per la prima volta è stata rimessa in discussione, dopo essere stata adottata, da una maggioranza di centro-destra-ultradestra, contravvenendo alle condizioni e alle premesse poste dalla Commissione. La risoluzione finale è stata in effetti approvata a larga maggioranza (con 371 voti contro 240 e trenta astensioni), grazie al voto favorevole di ventinove eurodeputati liberali e all’astensione di altri venticinque (solo diciannove hanno votato contro). Ma sui singoli emendamenti solo tra gli otto e i dieci liberali avevano votato a favore; e, in sei degli otto emendamenti approvati, la maggioranza di centro-destra-ultradestra ha vinto con pochi voti (fra i tre e gli undici) di differenza.
Le modifiche chieste dal parlamento europeo prevedono che i Paesi a rischio zero siano identificati sulla base di tre criteri, il più importante dei quali è che lo sviluppo dell’area forestale sia rimasto stabile o sia aumentato rispetto al 1990. Le organizzazioni ambientaliste internazionali hanno bocciato senza appello gli emendamenti approvati. Secondo il Wwf, considerare il criterio della stabilità dell’area forestale come prova dell’assenza di deforestazione “è fuorviante, perché può mascherare la perdita e il degrado di foreste primarie o secolari, ad alto valore di conservazione, che potrebbero essere sostituite da nuove piantagioni forestali. L’area forestale potrebbe essere così aumentata, ma un immenso valore verrebbe a mancare con la perdita delle ultime foreste vergini e primarie, che non verrebbe conteggiata”. Greenpeace, da parte sua, ha descritto la riduzione degli obblighi delle imprese europee, riguardo alle materie prime importate da paesi classificati “a rischio zero” di deforestazione, in questi termini: “Saranno eliminati i requisiti di trasparenza e tracciabilità, le imprese saranno dispensate dalla valutazione di rischio e rese virtualmente immuni da controlli. Solo lo 0,1% delle società che importano prodotti ‘a rischio zero’ saranno soggetti a ispezioni”. L’emendamento numero 10 del Ppe, approvato con 314 voti contro 303 e 23 astensioni, prevede in effetti che “ogni Stato membro dovrà assicurare che i controlli annuali condotti dalle proprie autorità competenti (…) coprano almeno lo 0,1% degli operatori” che immettono sul mercato o che esportano materie prime prodotte in un Paese classificato come “a rischio insignificante” di deforestazione.
Dopo l’approvazione degli emendamenti del parlamento europeo, che modificano il testo approvato dal Consiglio, le due istituzioni dovranno ora cercare un accordo nei negoziati a tre con la Commissione (Trilogo). E la Commissione – va ricordato – può ritirare, o minacciare di ritirare, in qualunque momento del processo di approvazione le sue proposte legislative, se lo considera opportuno. Ma la Commissione von der Leyen, che sia l’attuale o la nuova (sempre che entri in funzione a inizio dicembre), userà questo potere per bloccare le modifiche richieste dal Ppe? D’altra parte, appare comunque improbabile che il Consiglio accetti, anche solo in parte, la posizione del parlamento europeo. E se i negoziatori non riusciranno a trovare un accordo nel Trilogo entro poche settimane, rischia di non essere approvata in tempo neanche la proposta di ritardare di un anno gli obblighi per le imprese, che in questo caso scatterà automaticamente alla scadenza del 30 dicembre, come previsto dal testo originario.
Ma il significato e la portata di questo voto potrebbero andare molto al di là dell’ambito di applicazione delle norme sulla deforestazione. Innanzitutto, c’è il già menzionato vulnus alla dinamica legislativa, e alla governabilità interna del parlamento europeo. Il Ppe, con il sostegno dell’estrema destra, ha utilizzato la proposta di rinvio del regolamento come un cavallo di Troia per introdursi furtivamente entro il perimetro delle norme già adottate, con l’obiettivo di smantellarle, almeno in parte. Prima di essere rieletta a luglio, von der Leyen aveva detto che, con la nuova Commissione, non sarebbero stati toccati i provvedimenti già approvati del Green Deal. E questo lo hanno ripetuto, durante le loro audizioni di conferma, anche i commissari designati competenti.
Invece questo potrebbe essere solo il primo di una serie di attacchi alle norme già approvate del Patto verde, alcune delle quali sono già da tempo nel mirino del Ppe e delle destre: la direttiva sul “dovere di diligenza” delle imprese (che mira, come la legge sulla deforestazione, a controllare strettamente le catene del valore, in questo caso tracciando le importazioni da Paesi che non rispettano le norme ambientali e i diritti umani e sociali); la direttiva sull’efficienza energetica degli edifici (nota in Italia come direttiva “case green”); il nuovo sistema dei permessi di emissione Ets 2 (che riguarderà il riscaldamento domestico e i carburanti fossili); il dispositivo di dazi ambientali su certe importazioni (Cbam) dai Paesi che non hanno sistemi di riduzione delle emissioni equivalenti a quelli dell’Unione; e soprattutto il regolamento che ha fissato l’obiettivo zero emissioni nette di CO2 dai veicoli nuovi entro il 2035. Se si riesce a farlo con la deforestazione, perché non provare a cambiare la legislazione già approvata anche in altri casi?
E poi c’è la questione della spregiudicatezza del Ppe, del suo “tradimento” della maggioranza Ursula, la maggioranza europeista che aveva sostenuto a luglio il secondo mandato di Ursula von der Leyen, con i voti dei liberali di Renew, dei socialisti e democratici, dei verdi, oltre a quelli dei popolari. Questo è stato il primo dossier legislativo in cui sono stati approvati degli emendamenti con la cosiddetta “maggioranza Venezuela”, formata da Ppe, conservatori dell’Ecr, insieme ai “patrioti” e ai sovranisti di estrema destra. Nei pochi casi precedenti, in cui nella nuova legislatura si era manifestata questa nuova maggioranza, si era trattato di risoluzioni non vincolanti (come appunto quella sulle elezioni in Venezuela) o di decisioni non legislative (sul bilancio Ue e sul calendario delle audizioni dei commissari designati).
Inoltre, se il Ppe sostiene degli emendamenti dell’ultradestra, o propone emendamenti che sono sostenuti dall’estrema destra, cade pure l’accordo sul “cordone sanitario”, sostenuto finora anche dal Ppe. Un accordo non scritto, per cui non si negozia con i partiti di estrema destra antieuropea, e soprattutto non si negozia con loro la legislazione europea. “È la prima volta che vediamo la maggioranza Ppe-ultradestra in un voto legislativo”, ha sottolineato il liberale francese Pascal Canfin, coordinatore del gruppo Renew in commissione Ambiente, subito dopo il voto della plenaria. Sulla deforestazione – ha puntualizzato – “siamo riusciti a evitare lo scenario peggiore, ma questo significa comunque che non possiamo avere il Ppe come partner affidabile, nemmeno per quanto riguarda i testi legislativi”. “Il Ppe – ha avvertito Canfin – deve scegliere: non può governare con l’estrema destra che va contro i progetti europei, e poi con noi per sostenere la Commissione von der Leyen. Siamo vicini al momento della verità. Non siamo ancora alla crisi politica, ma iniziamo a vederne i segnali”, e, ha concluso, “è il Ppe che sta aprendo il vaso di Pandora”.