Da poco entrato in carica, già verso la fine dell’estate, il nuovo governo laburista del primo ministro Starmer aveva dipinto un quadro devastante della situazione finanziaria britannica, denunciando un buco di diversi miliardi di sterline lasciato dai conservatori. Rishi Sunak avrebbe nascosto un “buco nero” di circa venti miliardi, dovuto a impegni di finanziamento assunti dal governo tory, contratti senza sapere bene da dove sarebbero arrivati i soldi per onorarli. Di qui, di fronte alla realtà di un Regno Unito “sempre più distrutto”, come affermato a fine luglio dal nuovo primo ministro, la necessità di una manovra finanziaria di ampio respiro, volta a “ricostruire la Gran Bretagna”, che è stata a fine ottobre presentata dalla cancelliera dello Scacchiere (cioè ministra dell’Economia), Rachel Reeves.
Si tratta di una vera e propria bomba finanziaria, almeno per gli standard britannici. Reeves ha promesso investimenti annuali per circa settanta miliardi di sterline, circa la metà dei quali sarebbero coperti da nuove tasse e nuovo debito. Sono misure drastiche, che prevedono aumenti delle imposte che dovrebbero generare un totale di quaranta miliardi di sterline di entrate, il pacchetto più consistente degli ultimi trent’anni. Si prevede che l’aumento dei contributi previdenziali da parte dei datori di lavoro, dal 13,8% al 15%, porterà nelle casse dello Stato circa venticinque miliardi di sterline. Inoltre, l’imposta sulle plusvalenze aumenterà dal 10% al 18% (nel livello più alto dal 20% al 24%). Anche l’imposta sulle successioni aumenta; saranno poi tolti gli sgravi fiscali sia per le scuole private sia per i non-doms, gli stranieri che vivono nel Regno Unito e non pagano le tasse sul reddito percepito all’estero. Anche i voli su jet privati, il tabacco e le bevande zuccherate vengono tassati pesantemente. Il governo sta dunque prendendo “decisioni difficili”, come aveva ripetutamente minacciato, ma senza aumentare l’onere sui lavoratori, come aveva promesso. Allo stesso tempo, Reeves ha annunciato investimenti multimiliardari per il rilancio del servizio sanitario (22,6 miliardi di sterline), nell’edilizia abitativa (5 miliardi), nelle scuole (2,3 miliardi), nell’energia verde, nella difesa, in strade e ferrovie. Il salario minimo, in Gran Bretagna e Irlanda del Nord, salirà da 11,44 a 12,21 sterline.
Manovra discussa e certo audace; d’altro canto un intervento energico era necessario. I conservatori hanno lasciato seri problemi al Labour, e l’economia deve ancora riprendersi dalla recessione dello scorso anno. Nel 2022, gli inglesi hanno guadagnato meno, al netto dell’inflazione, rispetto al 2008, mentre il costo della vita è aumentato enormemente. Nel mercato immobiliare mancano alloggi a prezzi accessibili; quasi un terzo dei quattordici milioni di bambini cresce in condizioni di povertà relativa. Parla, per tutto il settore pubblico, il collasso del servizio sanitario nazionale, un tempo efficientissimo, e in cui ora occorre aspettare mesi per ricevere le cure.
Ma quanto è realmente radicale il programma del Labour? Certo, si mette uno stop ai tagli alla spesa pubblica, e si cerca di invertire la tendenza al risparmio a tutti i costi sulla pelle dei cittadini, ma era forse possibile tagliarla ulteriormente rispetto a quanto avevano fatto i conservatori? Non rimaneva più molto da tagliare e – se fossero stati ancora al potere – i conservatori si sarebbero trovati, probabilmente, di fronte alla stessa necessità di riaprire i cordoni della borsa, se non si voleva che interi settori sprofondassero: il servizio sanitario, le scuole, le pensioni e i sussidi. Se i laburisti non si fossero impegnati ad aumentare la spesa, ci sarebbero state liste di attesa sempre più lunghe per il servizio sanitario nazionale, scuole con meno insegnanti e investimenti pubblici in calo. Uno Stato, già per molti versi ridotto a una condizione disfunzionale, ne avrebbe forse ricavato qualche guadagno in produttività, ma sarebbe stato vicino al blocco completo del funzionamento del suo apparato.
Sulla finanziaria “progressista” pesano però anche alcune ombre: ci sono state polemiche riguardanti l’aumento del costo dei biglietti dei trasporti locali e il taglio alle tasse sulle automobili. I laburisti di Starmer, inoltre, non hanno scelto di ripristinare i servizi pubblici a partire dalla condizione in cui il New Labour li aveva lasciati nel 2010, hanno anche introdotto discusse innovazioni: significativa la previsione di spesa di 1,2 miliardi di sterline per nuovi posti nelle prigioni, nel 2025 e nel 2026, rispetto a 1,4 miliardi di sterline per gli edifici scolastici: il che dice molto sul progetto sociale sotteso.
Le polemiche più importanti riguardano, in ogni caso, le modalità di finanziamento di questa spesa. Di fronte al crollo dei conservatori, i laburisti hanno avuto la rara opportunità di creare un sistema fiscale più equo e progressivo. Ma è stato escluso l’aumento dell’imposta sul reddito, la principale imposta progressiva, e solo limitatamente sono state sfruttate le opportunità ridistributive offerte dall’aumento delle imposte sulle plusvalenze e sulle successioni. I datori di lavoro e i lavoratori sono stati colpiti, mentre pochissimo lo sono stati i rentier. Aumentare i contributi previdenziali dei datori di lavoro, rischia di trasformarsi in un’imposta indiretta sui lavoratori e sui salari, a differenza dell’imposta sul reddito.
Vero, per contro, che c’è una crescita del salario minimo: il che costringe le aziende a pagare di più la manodopera a buon mercato. Ma il Labour avrebbe potuto anche aumentare le tasse sugli utili aziendali tramite l’imposta sulle società. Ha scelto di non farlo. Sotto questo profilo, non hanno tutti i torti alcuni commentatori, che hanno sottolineato analogie con la politica economica dei tories: liberalizzare, incoraggiare gli investimenti esteri, sostenere l’innovazione, investire in alcune infrastrutture e cercare di far funzionare la Brexit.
Basta menzionare la vicenda del National Wealth Fund (Nwf), fondo per la ricchezza nazionale, lanciato con un grande battage quattro mesi fa, che ha l’obiettivo di incrementare gli investimenti in progetti infrastrutturali nazionali – come porti, mega-fabbriche e progetti per l’idrogeno e l’acciaio – con l’aiuto di una task force di leader aziendali, di esperti di banca e finanzieri. Non funziona come un fondo sovrano, creato per gestire un’eccedenza di bilancio, il Nwf dovrebbe invece stimolare gli investimenti in settori chiave, alimentando negli investitori la fiducia nel Regno Unito, e dimostrando che il governo è disposto a condividere il rischio di impegnare denaro in progetti infrastrutturali a lungo termine. Il fondo che, a detta dei laburisti, “mobiliterà miliardi di sterline di investimenti nelle industrie mondiali leader nei settori dell’energia pulita e nella crescita del Regno Unito”, pare però una versione rinominata, e modestamente ampliata, della UK Infrastructure Bank (Ukib) dei conservatori. Questo piano prevedeva un massiccio supporto alla cattura e allo stoccaggio del carbonio, avvantaggiando direttamente le compagnie petrolifere e del gas: non soltanto è stato ripreso, ma anche pubblicizzato come una delle principali caratteristiche del programma di investimenti del Labour.
Senza troppe nostalgie, si può tranquillamente affermare che il vecchio Labour, con tutti i suoi limiti, era altra cosa: il partito un tempo proponeva una politica economica alternativa, che ha plasmato la Gran Bretagna moderna. Non è mai stato un partito che pensasse solo al welfare o alla crescita. Ha tentato una trasformazione dell’economia e della società, in direzione di una maggiore uguaglianza. Certo, non si può pretendere di tornare ai programmi del partito dei “gloriosi trenta”, cioè degli anni 1945-1974, che erano pensati per un’economia industriale in rapida crescita. Le cose sono cambiate, non da ultimo perché l’economia britannica non è più un attore importante a livello mondiale, e soprattutto perché oggi non si possono guidare le economie continuando a bruciare carbone e risorse naturali. L’ossessione della crescita a tutti i costi rischia però di cancellare altre problematiche. Dovrebbe essere una rivendicazione centrale di una politica progressista che uguaglianza, efficacia ed efficienza marcino insieme, piuttosto che trovarsi in conflitto, come negli ultimi decenni è per lo più avvenuto.
Il partito di Starmer vuole essere quello degli affari, delle riforme, delle moderne politiche di offerta, dell’innovazione, dell’imprenditorialità, dell’assunzione di rischi e dell’intelligenza artificiale. E la chiave di questa politica? Il primo ministro parla di stabilità finanziaria e liberazione da “sistemi di regolazione arroganti e da un regime di pianificazione disfunzionale (…), di sradicare la burocrazia che soffoca la crescita” per attrarre investimenti esteri, insomma per rendere il Paese più attraente agli investitori stranieri. Per parte sua, la cancelliera dello Scacchiere ha promesso una revisione della normativa che regola l’industria finanziaria britannica, “gioiello della corona”, che, a suo parere, ha incatenato le prospettive globali della City dopo la crisi finanziaria globale, soffocando la crescita economica del Regno Unito.
Intanto, il 70% dei britannici ritiene che la situazione stia peggiorando, solo il 7% vede un miglioramento, come hanno annunciato, lunedì scorso, i sondaggisti dell’organizzazione “More in Common”. L’indice di popolarità del governo, eletto con un enorme margine, sta scendendo rapidamente, anche se il massiccio investimento nel servizio sanitario nazionale ha riscosso pressoché unanime approvazione.
A decidere delle sorti di questa finanziaria coraggiosa, anche se forse non di grande slancio ideale, sarà la crescita economica che ne dimostrerà l’eventuale efficacia. Le previsioni fino al 2029, presentate mercoledì dalla Reeves non paiono eccessivamente rosee, dato che vedono una crescita compresa tra l’1,1 e il 2% annuo: il che è già qualcosa se si considera la stagnazione del 2023, con una recessione tecnica negli ultimi mesi dell’anno. I dati di settembre, per ora, mostrano una leggera contrazione, anziché una espansione – ma certo è presto per giudicare. Resta il segno in controtendenza, la chiara volontà di rifinanziare il settore pubblico. Vedremo se l’esempio dei laburisti troverà in Europa orecchie disposte ad ascoltare.