I commentatori di tutto il mondo avevano iniziato a disegnare la mappa della geopolitica di Donald Trump senza attendere l’annuncio della sua vittoria alle presidenziali del 5 novembre. Con le nomine ai posti chiave del suo governo, questa mappa si va definendo nei suoi contorni. L’Africa rimane però apparentemente un buco nero, perché non è mai entrata nel dibattito elettorale e perché la maggioranza dei commenti sottolinea come, durante il precedente mandato, Trump avesse trascurato il continente.
In effetti Trump non ha mai effettuato un viaggio in Africa, e ha avuto in un certo momento (2018) un’espressione volgare e sprezzante nei confronti dei Paesi africani, definiti “di merda”; ma è anche vero che l’Africa non è mai stata tra le priorità di tutte le recenti amministrazioni americane, con qualche eccezione per quelle di W. Bush e Obama. L’aspetto della sicurezza è diventato preoccupante col nuovo millennio, dopo l’infiltrazione nel continente dell’organizzazione denominata Stato islamico e dei suoi derivati, e soprattutto dopo che Cina, India, Russia e Turchia si stanno impegnando a fondo in una neocolonizzazione dell’Africa attraverso la finanza e le infrastrutture (Cina), la presenza militare (Russia e Turchia), gli investimenti (India).
Fonti di materie prime, alcuni Paesi africani hanno mantenuto, durante l’amministrazione Trump, la possibilità di esportare i loro prodotti esenti da tasse grazie al meccanismo Agoa, in vigore dal 2000; in quest’ottica Trump aveva lanciato il programma Prosper Africa, con l’obiettivo di accrescere gli scambi attraverso accordi bilaterali, e contrastare così l’influenza economica cinese nel continente. Inoltre, l’Africa era rimasta la maggiore beneficiaria dell’aiuto allo sviluppo anche con Trump. La presenza militare è continuata, e in misura molto maggiore di quanto si possa pensare, perché molto discreta e più legata alle crisi che non a una strategia globale. Soprattutto, con gli “accordi di Abramo”, Trump ha saputo segnare proprio in Africa alcuni passi decisivi. Basti pensare al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Israele e il Sudan (rimosso dal novero degli Stati che sostengono il terrorismo) e col Marocco, in questo caso attraverso la contropartita del riconoscimento, da parte americana, della sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale.
È fin troppo facile prevedere che, durante il Trump 2, l’Africa non sarà alla ribalta per le grandi dichiarazioni strategiche, tutt’al più per delle battute (volgari?); ma per evidenti motivi economici e strategici Trump non potrà non combattere anche in Africa la sua battaglia per contrastare la crescente egemonia cinese e per contenere la presenza militare russa. Mosca è infatti il principale fornitore di armi dell’Africa subsahariana.
I Paesi africani non hanno comunque aspettato il Trump 2 per volgersi altrove: anche per questo la nuova amministrazione dovrà fare bene i suoi conti. Nel 2025 scade l’accordo Agoa che permette, ad alcuni Paesi africani privilegiati, di esportare senza dazi negli Usa, che ne ricavano prodotti e soprattutto materie prime. Trump, in campagna elettorale, ha lasciato intendere che non rinnoverà l’accordo, ma al dunque una valutazione strategica più puntuale, che tenga conto dell’orizzonte mondiale e soprattutto della Cina, potrebbe fargli cambiare idea. In tema di aiuti allo sviluppo, è prevedibile che continuerà la politica selettiva nei confronti dei programmi di sostegno al controllo delle nascite, già esclusi dai benefici, così come vedrà di buon occhio quei Paesi che limitano i diritti delle persone Lgbtq+. Verosimilmente, non introdurrà alcuna clausola discriminatoria basata sulla violazione dei diritti umani, e non a caso, tra i più solleciti nel fare i complimenti per la sua rielezione, ci sono alcune autocrazie africane. In materia di democrazia e di diritti fondamentali, il realismo e il cinismo saranno sicuramente la guida della nuova amministrazione.
Quanto alla politica contro l’immigrazione, questa avrà per ragioni strutturali un effetto limitato in Africa: ci potrà essere un giro di vite nella concessione dei visti di ingresso e l’introduzione di condizionalità, ma, anche questa, sarà una scelta dentro un quadro non ancora ben definito. Al contrario, la presenza militare americana nel continente potrebbe vedere una nuova fase. Gli Stati Uniti hanno dovuto ritirarsi dal Niger e, malgrado la scarsa enfasi data alla cooperazione militare dal Trump 1, con alcuni Paesi africani questa rimane di grande importanza: si pensi a quella con Gibuti, essenziale per controllare lo scenario oggi strategico tra il Mar Rosso e l’Oceano indiano. Inoltre, le industrie degli armamenti ricorderanno a Trump i loro interessi, soprattutto se l’offensiva israeliana in Medio Oriente dovesse affievolirsi.
La partita del clima, per uno scettico del cambiamento climatico come Trump, sembra persa in partenza. Potrebbero essere però gli Stati africani a ricordare alla nuova amministrazione, e al mondo intero, di non potere più pagare, in termini di siccità e inondazioni devastanti, le conseguenze di politiche industriali ed energetiche folli. In fondo, tutti i commenti sul futuro delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Africa partono dal presupposto che il continente non abbia alcun peso di fronte alla forte personalità di Trump, assurto al ruolo di vincitore assoluto. Non è detto, invece, che proprio dall’Africa non possa venire qualche sorpresa per Trump, costringendolo a disegnare con più attenzione i contorni dell’Africa nella sua mappa del mondo.