I riflettori sono stati puntati per giorni sugli scontri ad Amsterdam tra manifestanti filopalestinesi e arabi, da un lato, e tifosi del Maccabi Tel Aviv, dall’altro (sui cui dettagli non entriamo, perché già ampiamente descritti dai principali mezzi di comunicazione). Nulla o quasi è invece trapelato circa le gravissime misure liberticide e repressive che il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu sta mettendo in atto contro i palestinesi, gli arabi israeliani e lo stesso dissenso interno. Notizie che non sono oggetto di discussione nei vari tg o talk show televisivi, mentre ampio spazio è concesso a chi straparla di antisemitismo o pogrom, offendendo, oltre che la storia, le tragiche vicende vissute dal popolo ebraico.
Appaiono raccapriccianti le misure prese, all’inizio di questo mese, dalla Knesset, il parlamento israeliano, riguardo alla necessità di combattere il terrorismo e, come abbiamo detto, anche contro gli arabi con cittadinanza israeliana, in un contesto sociale e politico sempre più caratterizzato da forme di vero e proprio apartheid. D’ora in avanti, intere famiglie correranno il rischio di essere deportate (non è chiaro in quali territori) per un periodo che potrà variare dai sette ai venti anni, a seconda che si sia cittadini israeliani o solo residenti.
A questo già grave provvedimento – in rotta di collisione con la tanto millantata unica democrazia del Medio Oriente (vedi qui) – si è affiancata una misura che prevederebbe perfino l’ergastolo per i bambini sotto i dodici anni: basterà un semplice capo d’accusa o essere sospettato durante la famigerata “detenzione amministrativa”. Questa misura, in poche parole, dà allo Stato il diritto di detenere un cittadino a tempo indeterminato, ed è strettamente legata al tema della deportazione. “I detenuti amministrativi – dice Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla Liverpool John Moores University, in un’intervista rilasciata alla testata “Melting Pop Europa” –, così come i detenuti comuni palestinesi, sono spesso deportati per l’interrogatorio o per la stessa detenzione sul territorio israeliano. Questo avviene in chiara violazione del diritto umanitario internazionale, in modo particolare dell’art. 49 della quarta Convenzione di Ginevra, che vieta alla potenza occupante di deportare una persona per qualsiasi motivo dal territorio occupato al territorio occupante, in questo caso da quello palestinese a quello israeliano. Non c’è – precisa Mariniello – nessuna deroga del diritto umanitario internazionale che Israele possa giustificare con motivazioni di sicurezza nazionale”.
Nel mirino del provvedimento potrebbe finire anche un incolpevole membro di una famiglia di cui fa parte un terrorista, in virtù del fatto che, comunque, avrebbe dovuto essere a conoscenza dell’attività messa in atto dal famigliare. La differenza di trattamento tra gli arabi israeliani e gli ebrei israeliani riguarda anche i minori: infatti, se i bambini arabo-israeliani possono essere condannati all’ergastolo, questo non vale per la maggioranza degli altri minori, di religione ebraica, che non possono essere detenuti sotto i 14 anni e, sotto i 12, non possono essere oggetto di un provvedimento penale.
Tutto ciò avviene a fronte di una quasi assoluta assenza di tutela legale. “Con l’ulteriore limitazione dell’accesso ai legali e familiari palestinesi nelle carceri gestite da Israele – denuncia Save the Children – le testimonianze di bambini e adulti rilasciati dalla prigionia sono in pratica le uniche fonti disponibili sulle condizioni affrontate durante la detenzione. Firas e Qusay – informa l’associazione umanitaria – sono due ragazzi diciassettenni che provengono dai territori occupati della Cisgiordania. Qusay ci ha raccontato di avere visto un bambino con ferite alla testa causate da percosse così gravi da farlo svenire ogni volta che cercava di alzarsi, e che alcuni bambini portati in carcere avevano appena 12 e 13 anni”.
Anche il centro legale Adalah, legato all’omonima organizzazione indipendente per i diritti umani, ha denunciato che queste nuove norme repressive non fanno che confermare l’istituzionalizzazione di un regime segregazionista, in aperta violazione sia del diritto internazionale sia degli stessi diritti costituzionali. A questo quadro – per la verità già noto da anni, e che è andato solo peggiorando negli ultimi tredici mesi – si aggiunge un altro elemento, tutt’altro che inedito, che riguarda la persecuzione contro rappresentanti delle stesse istituzioni israeliane. È il caso del deputato comunista Ofer Kasif, che ha sostenuto la richiesta del Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia per il genocidio a Gaza. A causa di questa coraggiosa presa di posizione è stato sospeso dalla Knesset per sei mesi. Misura contestata dal ministro di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, che avrebbe invece chiesto la deportazione in Siria di quello che è, a tutti gli effetti, un cittadino dello Stato ebraico e un rappresentante delle sue istituzioni.
Kasif non è nuovo a prese di posizione scomode, in aperto dissenso non solo contro l’attuale governo, ma anche contro quelli precedenti, compresi gli esecutivi a guida laburista. Classe 1964, venne imprigionato durante la leva, perché nel corso della “prima intifada” si rifiutò di prendere parte all’occupazione dei territori palestinesi. E la sua recente partecipazione alle elezioni è stata in forse fino all’ultimo, vietata in un primo momento dal Comitato elettorale centrale per avere definito Ayelet Shaked, già ministra della Giustizia ed esponente dell’estrema destra israeliana, “feccia neonazista”. La Corte suprema annullò poi questa decisione, e l’esponente della sinistra israeliana è stato eletto nel 2019, 2020 e 2021.
Tutto questo mentre a Gaza l’orrore non conosce confini. Così, se esponenti del governo, come Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e uno dei leader dell’estrema destra, sperano che l’arrivo di Donald Trump possa permettere a Israele di annettersi anche la Cisgiordania, l’intenzione del governo di occupare definitivamente Gaza è dimostrata dalla presenza a Netzarim di genieri e muratori pronti ad avviare una ricostruzione a uso e consumo di Israele.
Vista la complicità degli Stati Uniti, e l’inazione dell’Europa, l’unico ostacolo, lungo il percorso criminale del governo di Tel Aviv, resta l’Arabia saudita (vedi qui) che, per voce di Mohammed bin Salman, durante la recente conferenza arabo-islamica, ha condiviso l’accusa di genocidio, sostenendo così l’indagine della Corte di giustizia dell’Aia richiesta dal Sudafrica. Con tutta evidenza, Riad preferirebbe avere a Tel Aviv un interlocutore più disponibile al dialogo di quanto non sia il leader del Likud; ma potrebbe non bastare per fermare un governo che, tra l’altro, continua a non mostrare alcun interesse per la liberazione degli ostaggi, come denuncia Amos Harel di Haaretz, voce dissidente nel panorama giornalistico israeliano, sul cui futuro è lecito cominciare ad avere dei dubbi.
Per tutte queste ragioni, pur condividendo la necessità di non abbassare mai la guardia nei confronti dell’antisemitismo come di qualsiasi altra forma di razzismo, riteniamo stucchevoli, se non strumentali, i continui allarmi e gli improbabili confronti con l’Europa degli anni Trenta e Quaranta, o il richiamo ai pogrom che, nel corso dei secoli, hanno provocato la morte di milioni di ebrei. Denunce spesso mosse da chi non esita a sostenere l’attuale governo dello Stato ebraico. Chi invece non sostiene Netanyahu dovrebbe rivolgere lo sguardo a quanto succede in quei luoghi disgraziati per capire che la priorità, oggi, è quella di fermare il massacro dei palestinesi.