Il presidente Mattarella ha fatto benissimo a ricordare a Musk, intervenuto nella controversia in corso tra il governo e la magistratura sulla sorte dei migranti in Albania, che l’Italia è un Paese sovrano, con una sua Costituzione, che non accetta intromissioni da un esponente, sia pure in pectore, di un governo di un Paese amico: specialmente – aggiungiamo noi – quelle di qualcuno che, in linea con un’idea di “democrazia plebiscitaria”, mirerebbe a cancellare la distinzione dei poteri. Al di là del caso specifico, però, che cosa mostra quest’ultimo episodio?
Più in generale, qualcosa d’impensabile con le vecchie categorie: i nazionalismi non sono quelli di una volta – gli stessi che, gli uni contro gli altri armati, distrussero la belle époque europea con il bagno di sangue della Prima guerra mondiale. Essi oggi formano piuttosto una sorta di paradossale internazionale di estrema destra; li si ritrova attivamente operanti in Europa come negli Stati Uniti, e altrettanto nell’Israele di Netanyahu. Ciò dovrebbe fare riflettere gli eventuali sostenitori – ammesso che ve ne siano ancora – di un “sovranismo di sinistra”. Come si risponde a questo nuovo tipo di estrema destra mondiale?
Viene meno l’illusione che si possa competere con la destra estrema sul suo stesso terreno, cioè difendendo una politica economica fatta di protezionismo e di dazi, al fine di ricondurre nei perimetri dei differenti Stati nazionali un ipotetico scontro di classe. In quella che è stata detta la fase di “deglobalizzazione” in cui siamo entrati, non è più una liberaldemocrazia mondiale l’asse politico principale del capitalismo, quanto piuttosto, sia pure con diverse gradazioni, la tendenza alla chiusura isolazionista, che tra l’altro collide fortemente con la necessaria (ma difficilmente realizzabile in questa situazione) transizione ecologica – per tacere dei danni che adduce alle economie in via di sviluppo.
Tutto ciò che ci si può attendere dal trumpismo (ri)montante, e d’altro canto dal regime putiniano, è che riescano almeno ad arrivare a un “cessate il fuoco” nel conflitto russo-ucraino. Non sarebbe la prima volta, nella storia, che forze di estrema destra manifestano una tendenza “pacifista”. L’intera vicenda francese antecedente alla Seconda guerra mondiale vide i locali fascisti filohitleriani battersi per evitare che “si morisse per Danzica”, come si diceva, e spingere così per un’intesa con la Germania nazista: furono poi quegli stessi che, contraddicendo il loro preteso nazionalismo, si ritrovarono tra le file del collaborazionismo di Vichy. Mutatis mutandis, ovviamente, forme di accordo tra Trump e Putin sarebbero non solo possibili ma del tutto plausibili.
Questo però non deve distoglierci dalla questione principale: quella dell’internazionale nazionalista, per quanto appaia una contraddizione in termini, è una minaccia concreta, comportando una compressione delle libertà fondamentali e una preferenza per una “democrazia plebiscitaria”, come l’abbiamo definita, o una “democratura” come la si chiama in America latina, o ancora una “democrazia illiberale”, stando a Orbán, uno dei campioni di questa prospettiva.
Una risposta di sinistra passa allora per la costruzione di un ampio fronte internazionale, che comprenda sia forze più moderate sia forze più radicali, che – nella contesa di egemonia con la destra estrema – riesca a riprendere il filo di una politica progressista. L’errore di Biden e della sua amministrazione, legati evidentemente a un’idea di dominio planetario della prospettiva liberaldemocratica come qualcosa di autoevidente, è stato di sottovalutare lo scivolamento di non secondari strati di popolazione – del loro stesso popolo, ma non solo di questo – verso soluzioni di destra dura. Avere tanto insistito sulla difesa dell’Ucraina (entro una certa misura sacrosanta), trascurando tuttavia le ripercussioni sull’aumento dei prezzi che una guerra prolungata porta con sé, non ha giovato, come si è visto, ai democratici statunitensi. E non gioverebbe a quelli europei se volessero assestarsi sulle posizioni centriste del tipo di quelle, per fare un esempio italiano, sostenute due anni fa in una competizione elettorale non a caso fallimentare.