Venendo da voi per parlare del libro di Insolera-Berdini (Roma moderna, due secoli di urbanistica: vedi qui), mi chiedevo quali sono i motivi, o la passione, che vi spinge a iscrivervi a una facoltà come questa. Credo di avere una risposta: l’ideale di cambiare il mondo, di cambiarlo con la creatività e la bellezza. Un po’ come Dostoevskij faceva dire al principe Myskin: “la bellezza salverà il mondo”. Per inciso, e non per scoraggiarvi, più avanti nell’Idiota si chiede al principe: “ma quale bellezza salverà il mondo?”. E la risposta resta ancor oggi sospesa.
Si dice che i greci erano belli perché avevano strade e piazze belle, e c’è un passo dell’Iliade, quando Ettore abbandona Andromaca per affrontare Achille, che dice: “Ettore allora si slanciò fuori di casa, per la stessa strada giù verso le strade ben costruite”. Perché per i greci la bellezza coincideva con il ben fatto, tradizione che abbiamo dimenticato.
Arrivando a Roma moderna, la mancanza di tempo mi sarà utile scusa per parlare brevemente solo della seconda parte di questo libro. Quella sul quindicennio delle sindacature di Rutelli e Veltroni, e poi di quanto sta accadendo oggi con l’amministrazione Gualtieri. C’è una narrazione prevalente secondo cui Roma è in ritardo di sviluppo rispetto a quei modelli di città di successo rappresentati da Milano (dov’è stato impermeabilizzato il 59% del territorio amministrato), Londra, New York e magari Dubai. Si parla anche di un declino della capitale, parola secondo me non appropriata, perché implica che sia esistito, in precedenza, un periodo di splendore seguito da un rapido collasso. L’espressione giusta è quella di stagnazione (salvo il breve periodo delle amministrazioni Argan-Petroselli-Nicolini), che poi significa, per Roma, vivere di rendita, del lascito del passato: i monumenti, le rovine, quelli che Joyce chiamava i gioielli della nonna. La loro forza magnetica era tale, e tuttora lo è, che senza alcun intervento, la città continua a rappresentare, nel mondo, la “grande bellezza” – seppure sempre tremolante come la ricotta, rischiando di scivolare in un estetismo immobile, preda del proprio passato e di una storica rassegnazione.
Il termine ritardo evoca come suo opposto quello di modernizzazione. Ora, la parola modernità è una parola nobile, di cui non vi sto a parlare per mancanza di tempo. Modernizzazione è il suo opposto, e significa velocità, competizione, consumo, distruzione di valori, cancellazione di tradizioni, e così via. Uscire dalla stagnazione, modernizzando la città, è stato l’obiettivo dei sindaci di sinistra, da Rutelli a Veltroni; fare cioè di Roma, come sostenne Borgna, la capitale della cultura. Rutelli, per primo, tentò la rinascita attraverso la formazione di una squadra di collaboratori (che insieme a lui avevano girato l’Europa alla ricerca di innovazioni) intenzionati a modernizzare una capitale che non riusciva ad agganciare la velocità di altre grandi città europee, prese a modello di riferimento. Nacquero alcuni progetti: le cento piazze disseminate tra centro e periferia, il cui esito fu in molti casi fallimentare, e l’avvio di un nuovo Piano regolatore generale, dopo che era stato superato dalla realtà quello redatto nel 1962. Opera, quest’ultima, ripresa e portata a termine, nel 2008, dal sindaco Veltroni. Gestazione lunga e visione appannata da grandi compromessi con la proprietà privata.
Ma forse lo stesso concetto di modernizzare questa città così diversa da tutte le altre (delle quali si ammiravano e glorificavano i successi), era un concetto sbagliato, perché le diversità sono anche spesso delle grandi opportunità. Roma moderna lo è già: basterebbe rintracciare nel passato quelle cose che possono tornare utili nel presente, senza stravolgerne la storia (il Progetto Fori, per esempio). Invece, si è seguita un’altra strada, quella dai più facili risultati e successi. A dare l’impronta al Piano regolatore, allo sviluppo della capitale, era – ed è – il mercato, cioè le lobby degli immobiliaristi e della grande finanza, dei costruttori, degli interessi privati. È stato questo il frutto avvelenato dei compromessi con i poteri forti. Ha partorito due mostruose creature: le nuove centralità nelle periferie e la perversa “compensazione” urbanistica. Le prime hanno totalmente fallito l’obiettivo, risolvendosi, nella maggior parte dei casi, nella realizzazione di qualche centro commerciale. Le seconde hanno disseminato metri cubi di cemento nelle periferie oltre il Raccordo anulare, con la giustificazione (mai del tutto dimostrata) che i proprietari delle aree vincolate dal vecchio Piano regolatore andavano risarciti con terreni edificabili e cubature di gran lunga superiori (per edificazione) a quelli vincolati.
Nel frattempo, la logica del “pianificar facendo” (prassi quanto mai nefasta) e del “modello Roma”, osannato dalla sinistra come un esempio da esportare anche in altri contesti (i manifesti affissi, nelle varie zone della capitale, dicevano che Roma era la locomotiva d’Italia, con un Pil al +4,7%), nascondevano i cronici e storici mali di Roma: il traffico caotico, la carenza di servizi nelle periferie, lo smaltimento dei rifiuti, la burocratizzazione di un’amministrazione pletorica, la difficoltà, in una parola, di vivere quotidianamente la città.
Da allora, altre giunte si sono succedute: quella di Alemanno, di Marino – quest’ultima rovinosamente caduta per mano della stessa sinistra nella stanza di un notaio –, e infine di Raggi. In tutto questo arco di tempo, Roma ha continuato a vivere una rovinosa stagnazione, con qualche sussulto di vita generato da qualche effimero evento. Di qui la speranza che quella di Gualtieri potesse dimostrarsi, finalmente, una giunta di sinistra all’altezza delle aspettative. Ma i problemi, anziché semplificarsi, si sono fatti ancora più profondi, nonostante (o forse proprio a causa) siano piovuti sulla capitale enormi finanziamenti, quelli del Pnrr e del Giubileo, e nonostante al sindaco siano stati assegnati i poteri di commissario straordinario.
Ai mali cronici (da ricordare la famosa denuncia sui mali di Roma ai vescovi del prete Roberto Sardelli, nel 1974), mai risolti, se ne sono aggiunti di nuovi: l’iperturismo,che sta facendo salire alle stelle gli affitti, i dehors, che hanno di fatto privatizzato le piazze e gli spazi pubblici di larga parte del centro, la carenza di alloggi popolari, sostituiti dai cosiddetti social housing, la qualità dell’aria e la carenza di strutture sanitarie pubbliche, l’accoglienza ai migranti e ai senza fissa dimora, la trasformazione dei monumenti in merci, e infine, ultima arrivata, la rigenerazione urbana, vero cavallo di Troia per speculazioni edilizie (vedi il caso di Milano). Accanto alle buone intenzioni, si moltiplicano gli interventi effimeri o addirittura inutili, la cui sola giustificazione sembra essere quella di dimostrare di riuscire a spendere i finanziamenti arrivati alla capitale. Tuttavia – in questa nebbia di opere e di dichiarazioni retoriche, del tipo: “Roma si trasforma” o “modello Roma 2.0” – appare chiaro come l’opera di cementificazione non si sia mai fermata, e come gli obiettivi, tanto sbandierati, di consumo di suolo zero e di riconversione ecologica siano sempre più lontani.
Che “Roma si trasforma” è, paradossalmente, vero: la città presenta ormai due volti. Il primo, la“grande bellezza” di facciata, è quello di un avvicinamento sempre maggiore ai modelli globalizzati delle città mondiali. È la città del turismo, la città non-stop, che funziona giorno e notte a uso dei visitatori, degli alberghi di lusso, della trasformazione dei “bassi” (cantine e locali a piano terra) in B&B, della celebrazione di eventi, i cui proventi vanno in larga parte nelle tasche dei grandi circuiti turistici, ormai padroni della città. Il secondo volto, la“grande bruttezza”, è quello di una capitale immiserita, che ci appare non appena ci allontaniamo dal centro verso la periferia. Qui le contraddizioni diventano stridenti: emarginazione sociale, povertà diffusa, poteri criminali di governo del territorio, abbandono, incuria, degrado, incendi più o meno dolosi. Questo secondo volto della capitale è una diretta conseguenza del primo: tanto più il centro ha “successo”, tanto più la periferia si impoverisce, con buona pace della teoria dello “sgocciolamento”, tanto cara agli economisti liberisti.
A onore del vero, non possiamo dare tutte le colpe al sindaco Gualtieri: chi si assume la responsabilità del governo di questa città eredita anche tutte le disgrazie delle amministrazioni precedenti. Ma questa verità dovrebbe, semmai, rafforzare l’intenzione e la volontà di prefigurare, una volta per tutte, il disegno di uno sviluppo che non sia legato solo alle contingenze del presente. E qui bisogna ricordare che le promesse di un consumo di suolo zero e quella di una transizione ecologica dovrebbero essere al primo posto di questa amministrazione. Promesse finora smentite dai fatti, da quelle operazioni urbanistiche che ne negano la realizzazione: costruzione di nuove abitazioni, abbattimento indiscriminato di alberi, privatizzazione del verde, asfaltizzazione di piazze e strade, costruzione di alberghi di lusso, progetti di porti a uso crocieristico (Fiumicino), costruzione di inceneritori, parcheggi.
Un’ennesima prova ora è alle porte, rappresentata dalla revisione delle norme del Piano regolatore generale: sarebbe l’occasione giusta per indirizzare le politiche urbane verso obiettivi di conversione ecologica e opere di adattamento ai cambiamenti climatici, e, contemporaneamente, per perseguire obiettivi di riduzione e/o mantenimento dei flussi turistici, intervenendo con misure adeguate sul settore degli affitti. In buona sostanza: Roma continuerà a vivere della rendita dei gioielli della nonna, o saprà sollevarsi da questa storica stagnazione, ed eventualmente in quanti anni? Pur essendo tragicamente ottimisti, credo che le persone della mia generazione non vedranno la nuova alba.