La vittoria di Donald Trump – la seconda, e con avversarie del tutto diverse – certifica ormai il collasso di quella teologia del riformismo che spiega come solo con una navigazione interna alle linee del capitalismo si possa dare spazio e ruolo a una sinistra capace di mitigare gli aspetti peggiori di un sistema di sviluppo diseguale. La qualità dei risultati elettorali, la loro distribuzione e composizione sociale, la natura fortemente popolare e protestataria dei consensi arrivati al vincitore, dicono che il continuo ammiccamento alle componenti più imperiali del potere tecno-finanziario, in nome di un libertarismo che a sinistra è inteso come un illuminismo principesco, ha omologato la sinistra alle più detestate élite di potere, contro cui il peronismo digitale della coppia Trump-Musk ha saputo scagliare la provincia americana.
Compatibilità del sistema, convergenza valoriale sui diritti civili con le tecnocrazie: sono questi i due baluardi del riformismo moderato, che oggi appaiono vecchi arnesi molto più della romantica alternativa di un tempo fra socialismo e barbarie. All’ordine del giorno c’è la necessità di armare un’idea di socialismo con la cassetta degli attrezzi della società del calcolo, che squilibra il sistema accelerando l’innovazione, ed esasperando la dipendenza di queste tecnologie della condivisione dalla inevitabile complicità sociale che, per potersi realizzare, l’automazione padronale pretende.
Ritornano qui alla memoria le lucide pagine dei primordi dell’operaismo italiano – cioè i “Quaderni rossi” e la prima sociologia del lavoro numerico di Romano Alquati – espunte dall’idealismo del marxismo nostrano. Spiegavano Raniero Panzeri e Romano Alquati, all’inizio degli anni Sessanta, che la produzione automatica, determinata dallo scambio di simboli numerici fra operaio e macchina, non poteva prescindere da una complementarità del primo alla seconda, basata non più su vincoli disciplinari ma su una subalternità culturale che poteva essere contestata e negoziata, perfino con più forza rispetto alla semplice contrattazione del plusvalore fordista. Ovviamente, come ammonisce Keynes, per sostituire una teoria – quella della lotta di classe alla catena di montaggio – ci vuole un’altra teoria: in questo caso la riprogrammazione dell’automazione.
Il passaggio dall’automazione alla virtualità, con la successiva irruzione della riproduzione di memorie e intelligenze artificiali, porta ad adeguare il conflitto a uno spazio del tutto inedito. Per la prima volta, rammentava Antonio Negri, il comando del capitalista ha bisogno di un’assidua e attiva partecipazione dell’oggetto del nuovo sfruttamento immateriale, ossia l’utente profilato e scansionato dai big data, che deve produrre e riciclare il senso che le macchine generative producono. Una circostanza che rende possibile una riappropriazione collettiva di competenze e abilità, che sono comunque il compimento di un general intellect.
In questo processo, in mancanza di un’azione conflittuale sulla struttura dei nuovi dispositivi automatici, la forbice fra calcolanti e calcolati si apre a dismisura, sia nella sostanza del dominio esercitato dai proprietari delle macchine, sia nell’estetica di uno stile di vita che separa verticalmente la ristretta cerchia della nuova borghesia dei master e dell’ubiquità, da un popolo prostrato dalla propria irrilevanza e dequalificazione sociale. In questo scenario, l’ammiccamento della sinistra ai segmenti più sbarazzini e spregiudicati delle aristocrazie proprietarie, con una lunga commistione fra élite amministrative ed élite proprietarie, sia a livello di governo nazionale sia su quello degli enti locali, ha omologato gli eredi dell’antagonismo del movimento del lavoro a una pratica di consociativismo continuista. L’ossessione di governare a tutti i costi, e la deriva di un potere usato solo come rassicurazione dei ceti proprietari, ha permesso al revanscismo di una destra populista e sovranista di trovare un proficuo terreno di coltura.
La sobillazione tradizionale ha conosciuto un salto di qualità con l’incontro con gli strumenti del web. Il marketing dall’alto, imposto dalle grandi piattaforme, che tesaurizzano il condizionamento psicologico e comportamentale di ogni singolo utente, ha coinciso con il loro uso autoritario e condizionante sul piano politico. La stagione delle mobilitazioni programmate – dalle primavere arabe alle rivolte arancioni nei Paesi dell’Est – ha prodotto una strategia di sovversione digitale, culminata nell’avvento del primo Trump. Ma il disagio degli emarginati poteva essere trasformato in rabbia contro coloro che stanno alle spalle, e non nell’ambizione di disarcionare chi sta sulle spalle. Cambridge Analytica, prima, e poi le teorie della guerra ibrida, hanno reso il fiume carsico una valanga.
La miccia del resto era stata accesa da tempo, con la radicalizzazione dei ceti medi moderati, di cui l’Italia fu un laboratorio con il proto-leghismo degli anni Ottanta. Senza mediazione, la partita si gioca ormai fra due offerte contrapposte: un populismo reazionario e securitario, e un pallido riformismo buonista e inclusivo. L’esito è così sotto i nostri occhi: in tutto l’Occidente, i territori si staccano dalle borse, e diventano un soggetto negoziale gestito esclusivamente dalla destra estrema.
Non ci sono più gli interlocutori per una sinistra intermedia e moderata. Il voto della Lombardia e del Veneto è esattamente lo specchio di quello della Pennsylvania e del Texas: il pulviscolo dei piccoli proprietari, e dei settori più subalterni, individua due nemici: la Cina, che fa concorrenza al padrone, e l’ultimo immigrato che contende lo spazio conquistato dal penultimo. Trump sfonda anche in aree, come quelle delle minoranze ispaniche e di colore, tradizionalmente accodate all’illuminismo compassionevole della borghesia dell’old England.
Torna così all’ordine del giorno un’alternativa di sistema e non più nel sistema. Il riformismo esibito dai grandi fondi finanziari, schierato con la svolta green o con la civilizzazione del lavoro nei Paesi più arretrati, ci dice che il capitale ha deciso di giocare da solo la partita sul pianeta. L’accoppiata fra Trump e Musk ci dice che la destra sta già pensando a un ulteriore torsione del suo primato, avviando una transizione dei poteri istituzionali verso una piena subalternità alle scelte dei tycoons digitali.
Quale spazio per una sinistra nuova in questo scenario? Certo, non si tratta di una mossa a sorpresa, di una scelta immediata da tradurre nell’ennesima avventura elettorale. In discussione sono le identità sociali e culturali di una sinistra non gradualista. Quale base sociale? Quale forma partito? Quali obiettivi? Quale messaggio e quale narrazione da mettere in campo?
Come diceva Giuseppe Di Vittorio, solo se si contrasta l’avversario nel punto più alto dello sviluppo avremo la forza per tutelare anche i cafoni. E oggi il punto più alto sono le psico-tecnologie, le nuove forme di supporto e interferenza con i nostri circuiti neuronali. Come contestare la privatizzazione di questi processi? Sanità e formazione sono i due campi di battaglia. I territori sono i soggetti negoziali. L’idea è quella di lavorare su una prospettiva di socialismo come un’ulteriore forma di efficienza e non solo come un’etica. I processi di innovazione delle nuove forme di intelligenza artificiale non sono più alla portata dei bilanci delle singole compagnie. Bisogna allora mettere in campo una nuova idea di welfare tecnologico, che renda lo spazio pubblico l’ambiente e il soggetto per orchestrare una condivisione di questi fenomeni.
Come sosteneva Tocqueville, nel suo celeberrimo reportage sulla democrazia americana nella prima metà dell’Ottocento, la base della società del nuovo mondo era costituita da individui che patteggiano continuamente fra loro e con le istituzioni le condizioni di vita. Questi sono divenuti poi, nel laboratorio del capitalismo postfordista, la massa di manovra della privatizzazione di ogni socialità. Oggi possono diventare, in tutto l’Occidente, un popolo di competitori con i calcolanti – con abilità, saperi e pratiche che rendano la tecnologia sempre più un collante sociale e sempre meno un patrimonio privato.